Era un po’ che Giorgio Griffa (Torino, 1936) non movimentava la scena contemporanea di Genova con una sua personale. È tornato da ABC-ARTE, con “Un mondo astratto non basta”. Titolo che ci piace nel suo rappresentare quasi uno slogan di protesta, in linea col decennio di grandi contestazioni – gli anni ’70 – da cui provengono buona parte delle opere in mostra. Quarant’anni abbondanti, un gap siderale a pensarlo con la testa piantata nell’oggi. E proprio per questo capace d’illuminare la sublime attualità di certe ricerche visuali di ieri. Per tanti italiani attaccati alla poltrona ce ne sono altrettanti che riescono a rimanere stabili sul pezzo, anche a distanza di anni. Senza bisogno di una poltrona.
Così come ci sono artisti che non si accontentano di un mondo e di un astrazione convenzionali, abiurando al ruolo dell’artista interprete/portavoce/parafrasi della realtà. Ci sono artisti che hanno scollato l’astrazione da ogni forma di conforto umano. Quando nel 1972 Griffa affermava «Io non rappresento nulla, io dipingo» aveva già detto tutto, perché è la sua declinazione del verbo “dipingere” ad avere tutt’altro valore e significato.
Andiamo di esempio pratico: la pittura utilizzata come un polivalente sistema lessicale. In alcuni casi ottenendo una scrittura iso-musicale, inframezzando le sequenze cromo-segniche con più leggeri tratti neri. Pezzi come Segni Orizzontali, anno 1969, danno alla pittura un’autonomia chiavi in mano.
Come ogni testo scritto – partitura musicale inclusa – ha senso solo previa lettura, così un’opera di Griffa in linea di massima andrebbe letta più che guardata. Letta nei suoi contenuti formali in rapporto diretto con quelli ideali. Letta quindi in quanto immagine subordinata alla sua sostanza intellegibile, e per questo – solo per questo – più complessa delle sue evidenti due dimensioni. L’astrazione di Griffa, e soprattutto quella più radicale degli anni ’70 (gli ’80 dei Campi, di cui la mostra presenta alcuni utili flash, già viravano verso una maggiore apertura), è una traccia razionalmente coerente con la propria natura di acrilico su tela.
Se prendiamo per buono quanto detto fin’ora, partire con Tre segni del ’79 (dalla serie Contaminazioni) è come dare un indice introduttivo alla qualità ipertestuale del lavoro di Griffa, in una personale dove ogni opera assume i connotati della pagina-pop up. E qui fa il suo la compiacente mise en place di tele – juta e cotone – sottili e fluttuanti come fogli, appena spillate solo nella parte superiore. Ma non basta.
Sarebbe un delitto guadagnarsi l’uscita – o chiudere questa pagina – prima di aver riflettuto su come Griffa dipinga compiutamente per capoversi, seguendo la regola aurea che davanti ad un foglio impone d’iniziare a scrivere “in alto a sinistra”. Precostituendo così per le sue opere poca o nulla centralità, ancor meno simmetria, ma un’azione pittorica funzionale a sé stessa. In poche parole pura. Un’azione in cui le interruzioni a questo punto non spezzano tanto il ritmo, quanto sono fisiologia di un processo che utilizza il colore come soggetto della propria progressione. E se ha un inizio ha pure una fine.
In mezzo a tanta determinazione l’effetto della casualità è un comfort, affidato a tele quasi sempre ricettacolo di pieghe e grinze imprevedibili, e ancor più alle gocce di colore cadute come accidenti inevitabili. Le raccogliamo come un avvertimento. Perché se è tremendamente vero che “chi non si sporca le scarpe non cammina”, è altrettanto vero che “chi non sporca la tela non dipinge”.
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