La sede torinese della storica galleria di Tucci Russo ospita, in questi giorni, una personale di Giovanni Anselmo. La mostra si compone di diversi pezzi importanti che vanno, in un percorso a ritroso, dagli anni ottanta fino ai primi anni settanta, fine anni sessanta. Le opere in mostra indicano il percorso artistico di uno dei più affascinanti maestri dell’arte povera: l’evento costituisce l’occasione di conoscerne il lavoro, per i più giovani, ma soprattutto offre la possibilità di rileggere il pensiero di Anselmo nel contesto attuale, riscoprendone un’attualità sorprendente anche dal punto di vista del pensiero.
Volendo avvicinare il lavoro di Anselmo al pensiero di un filosofo, non si può non pensare a Gilles Deleuze e al suo concetto di forza.
Tutte le opere in mostra hanno, infatti, a che fare con l’idea di uno scambio di energie, o meglio, appunto, di forze con l’ambiente circostante. Le opere non sono propriamente oggetti, e anche quando hanno una dimensione oggettuale, somigliano più a dispositivi di senso, catalizzatori di forze, indicatori o, letteralmente, bussole e aghi magnetici che ci aiutano a muoverci in uno spazio che presto si rivela ben più vasto e ricco di implicazioni di quanto siamo abituati a pensare.
L’opera, spesso minimale, ai limiti del percepibile, per Anselmo è sempre questione di tensione, di equilibri o, più spesso, di equilibrio di tensioni. Si mettono in gioco, così, forze molto concrete, energie reali: come i campi magnetici che guidano l’ago delle bussole, indicandoci la direzione, oppure gli equilibri che tengono in piedi un filo di ferro opportunamente posizionato o, ancora, il tendersi di un pannello di plexiglas fino al suo limite prima di spezzarsi.
Affascina, qui, in modo particolare, il rapporto tra visibile e invisibile. In un lavoro del 1971, Anselmo proietta una scritta che dice la parola “visibile” utilizzando un proiettore – uno di quelli con cui vedevamo le diapositive quando eravamo piccoli, che in realtà, naturalmente, per lui era un oggetto completamente attuale rispetto al all’epoca in cui la l’opera è stata realizzata. La scritta, però, diventa visibile soltanto nel momento in cui noi ci poniamo a una distanza calcolata, di circa un metro rispetto al proiettore, e ponendo una superficie sufficientemente scura nel raggio di proiezione. Se nulla è posto a quella distanza dal proiettore, nulla può essere percepito: il visibile diventa perciò, paradossalmente, qualcosa che non si può vedere, che non può essere visto.
Che cos’è questo? Un corto circuito o una dialettica? Il visibile e ciò che non puoi vedere, ci dice Anselmo, e tuttavia ha l’opportunità, anzi, la possibilità di essere visto. Quindi l’artista pensa al visibile come possibilità? E nel contempo anche come impossibilità?
C’è poi un’altra opera in mostra, realizzata sempre con i proiettori, che indica la scritta “particolare”. In questo caso il dispositivo-opera funziona come un metalinguaggio, ai limiti del patafisico. Qui, per l’artista, creare è giocare con tanto con le parole e con le immagini e quindi fare immagini con le parole
Nell’opera sul visibile invisibile però c’è qualcosa di più.
Ma che cos’è visibile e che cosa è invisibile? Viene in mente il Simbolo niceno, secondo il quale Dio è creatore della terra e di tutte le cose “visibili e invisibili”. Ma che cosa sono le cose invisibili? Sono le cose molto piccole, quelle che non riusciamo a percepire per via delle loro ridottissime dimensioni, come i batteri o i virus? Oppure le cose invisibili sono quelle incorporee, ma realissime, come i sentimenti o i ricordi? Ma davvero queste cose sono invisibili? O sono visibili, ma a modo loro, e a certe condizioni? I sentimenti si vedono se ci poniamo nel modo giusto; se sono dimostrati o espressi, così come le idee o i ricordi.
Anselmo ci dice che per vedere non l’invisibile, ma il visibile, occorre fare una cosa: mettersi alla giusta distanza. È questo il gioco dialettico: quello che noi vediamo posizionandoci alla giusta distanza non è naturalmente l’invisibile, che appunto non può essere visto, ma il visibile e non potrebbe essere che così. Il visibile che ci appare dunque soltanto in determinate circostanze, e può non essere visto, se ci poniamo alla distanza sbagliata.
Per spiegare meglio faccio un esempio. In un commento agli Arbeitsjournal di Brecht, Georges Didi Huberman riflette sul concetto brechtiano di Verfremdung, che il filosofo francese traduce con “distanziazione” e in italiano è reso con “straniamento”. Anche Brecht invita a mettersi alla giusta distanza per comprendere le immagini. Prendere le distanze da un’immagine non significa, qui, annullare ogni coinvolgimento di carattere emotivo bensì trovare quel modo speciale che permette all’immagine di apparire come essa è, ma non tanto in sé stessa, quanto nel suo sistema di relazioni.
Questo avviene tanto più nei lavori di Anselmo, dove l’oggetto, cl e abbiamo detto, non è un oggetto, bensì è una forza
In questo senso vanno lette e comprese le opere (in mostra) in cui Anselmo disegna a matita l’ago di una bussola che indica una direzione, magari quella dell’oltremare, verso il quale noi sempre, più o meno consapevolmente, ci muoviamo.
Viene in mente quello che diceva Cartesio, meditando su come sia possibile uscire da una foresta intricata e oscura. Per uscire da una foresta così, diceva Cartesio, bisogna prendere una direzione e seguire quella, senza mai deviare. Noi non sappiamo a che punto ci troviamo nella foresta, se siamo più o meno prossimi all’uscita, ma certamente, se imbocchiamo una via diritta e non la mutiamo mai, presto o tardi vedremo la luce. Ecco, le opere di Anselmo fanno un po’ da bussola, in questa intricata foresta, e la direzione che indicano punta dritto verso l’oltremare.
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