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Teorica, pratica e poetica di un’arte ecosostenibile: intervista a Giovanni Blandino
Arte contemporanea
Giovanni Blandino, artista torinese e studente presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, racconta il suo tentativo artistico per parlare di ecosostenibilità, oltre che nella poetica, anche nella pratica che adotta nella sua ricerca.
Vorrei iniziare parlando del tuo percorso di formazione.
«Attualmente sto frequentando il triennio in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, prima non mi ero mai affacciato in questo modo al mondo dell’arte, mi ha sempre affascinato, ma l’avevo sempre guardato dall’esterno. Al liceo ho avuto una formazione classica, la quale sicuramente è stata determinante per il mio attuale modo di pensare e di impostare alcuni ragionamenti. E ora, dopo questi tre anni in Accademia, penso di aver capito cosa effettivamente voglio trarre dal mio percorso. Inoltre da un anno ho iniziato a collaborare con Fleisch 023 e siamo convenuti che ci servisse uno studio nel quale lavorare. Siamo così venuti a conoscenza di Studio Scalzo tramite due colleghe dell’Accademia, e siamo venuti a fare una visita dello Studio, dove subito siamo rimasti piacevolmente impressionati dall’atmosfera conviviale, e questo ci ha spinti a venire qui. Ormai sono un paio di mesi che lavoro nello Studio».
In alcune tue opere usi i rifiuti come materiale principale, come in Capitalocene Core, vorresti parlarmi di questo metodo di riutilizzo e dirmi quanto è importante per il tuo lavoro che l’opera sia ecosostenibile?
«Ho sempre inteso la scelta dei materiali come una questione etica, mi chiedo sempre cosa si possa creare partendo da elementi di scarto e rifiuto, come ridare dignità a questi oggetti che releghiamo ad ambiti della nostra quotidianità di cui non vogliamo più tenere conto. In passato ho infatti anche lavorato con le muffe. Dall’altra parte mi sono sempre posto nell’ottica in cui non mi sembra giusto dover attingere a materiali nuovi dal momento che il nostro ecosistema è carente di materie prima da cui attingere. Questa è la genesi del lavoro Capitalocene Core. Per la scelta del titolo ho voluto giocare sull’ambivalenza del termine “core”: in inglese significa sia “nucleo”, inteso come elemento costitutivo di quella che è la continua produzione di merci e rifiuti che caratterizza il nostro periodo storico, che “carotaggio”, termine che richiama la dimensione narrativa del lavoro. Mi sono immedesimato nel futuro paleontologo che andrà a fare i carotaggi nel terreno quando il suolo sarà cosparso di rifiuti. Per questo ho creato l’oggetto con pareti lineari, per dare quell’idea di sedimentazione geologica della materia».
Capitalocene Core, è composto da rifiuti e resina, hai usato questo materiale per altri lavori?
«Ho fatto altre sperimentazioni in cui ho provato a integrare vita organica più complessa nella resina: per Capitalocene Core avevo provato a inglobare della frutta ammuffita, però non ho ottenuto il risultato che speravo. Un altro progetto a cui avevo pensato, ma che non ho mai portato a termine, era quello di fare una colata di resina su una lucertola e un’ape che ho trovato morte. La bellezza della lucertola stava nella posizione in cui il rigor mortis l’aveva pietrificata, l’ape l’ho posta in maniera consequenziale per rendere evidente questo movimento circolare. Ho ragionato su come quello che può essere il predatore di un essere è a sua volta la preda di qualcun altro, sebbene in maniera diversa e con differenti tempistiche, ed è dunque per me evidente una logica di appartenenza comune sottesa da ogni ecosistema».
Perché non hai portato a termine questo progetto?
«Ho pensato agli sviluppi di questo lavoro, la colata di resina sugli animali mi sembra un gesto violento, anche se gli animali li avevo trovati già morti, non volevo essere troppo irruento con la mia operazione. Mi piacerebbe comunque poter resinare piccoli animali così come li trovo, mantenendo le loro specificità scultoree. Però ho anche un po’ di conflitto nei confronti dell’utilizzo della resina. Cerco di lavorare all’interno di una dimensione che mi porti a usare solo materiali biodegradabili, e la resina non lo è. Invece all’interno di un lavoro come Capitalocene Core la resina è significativa: dato che l’uso della plastica è stato rivoluzionario all’interno del nostro sistema produttivo, la resina appare come un suggello di questo concetto. Quello che cerco di domandarmi sempre è se, per lavorare, posso attingere a materiali che siano più rispettosi di quella che è anche la mia etica».
Anche in Growing a Jellyfish in a Jar usi dei rifiuti, sebbene di natura diversa rispetto a Capitalocene Core, giusto?
«Per quanto riguarda la presenza di rifiuti nella serie di fotografie Growing a Jellyfish in a Jar, il mio interesse è partito più da una suggestione estetica: ho trovato curioso come due liquidi corporei potessero mescolarsi a vicenda, andando a creare un miscuglio inedito, sebbene le specificità di entrambi rimanessero intatte. Mi è piaciuta l’idea di attingere da questi due elementi del corpo. L’urina simbolicamente può essere concepita come lo scarto di fluidi residui dell’organismo, mentre lo sperma è un liquido da cui scaturisce la vita. Far entrare in contatto la sfera della morte con quella della vita è quello che mi è interessato particolarmente in questo lavoro. Inoltre l’allusione a creare narrative differenti si evince anche dal titolo, che suggerisce la volontà di addomesticare un animale all’interno di un ambiente che non gli è proprio. Questo ha lo scopo di suscitare ambiguità tra quello che lo spettatore si trova davanti e quello a cui il titolo rimanda. Per questo lavoro ho ragionato sulle foto di Andres Serrano e mi scoprivo sempre più affascinato nel momento in cui guardavo i miei scatti, a livello performativo fare queste foto è stato pesante, ma mi interessava analizzare la costrizione dell’atto erotico all’interno di una modalità che erotica non è».
Parlando di antropocene ed ecosostenibilità non si può non nominare Donna Haraway, che per te è un grande riferimento, ad esempio, so che è molto stretto il legame tra la tua serie di disegni Intimacy of Strangers e il libro della filosofa del 2019 Chthulucene.
«Per come imposto il mio lavoro faccio spesso riferimento a pensieri altrui che finisco con incorporare all’interno del mio modo di fare e pensare. La lettura di Donna Haraway, come quella di Lynn Margulis, mi ha dato modo di consolidare un’idea che era già abbozzata in me, ma che aveva bisogno di trovare una formalizzazione ultima. Haraway è fondamentale per la mia ricerca, soprattutto per quanto riguarda il suo approccio interdisciplinare, sento che la vicinanza fra me e lei è data dal fatto che non si occupa di filosofia in senso stretto, ma cerca sempre di rapportarla a diversi campi dello scibile, che rendono le sue teorie molto più tangibili. Per quanto riguarda il lavoro Intimacy of Strangers leggere Lynn Margulis è stato fondamentale nel momento in cui avevo bisogno di dare corpo a un pensiero che partiva in primo luogo da una mia fascinazione estetica per le muffe, le protagoniste dei miei primi lavori. Il mio voler riabilitare elementi di scarto ha trovato un appoggio teorico in queste letture, e, nello specifico di questi disegni, il discorso sulla simpoiesi che cerco di trasmettere, mi è stato suggerito interamente da questa lettura».
Stai lavorando a qualcosa di nuovo in questo momento?
«Mi sto concentrando molto sul rapporto fra uomo e animale, ho intenzione di fare un lavoro con il mio gatto, vivo con malinconia la sua vita in cattività nel nostro spazio domestico. Vorrei ragionare su cosa significa per un animale subordinarsi a uno stile di vita non proprio, e come ci si può adattare nei confronti di uno spazio nuovo. L’obiettivo di questo progetto sarebbe quello di portare nuova vita in un luogo che altrimenti sarebbe vuoto e desolato».