A quasi cinquant’anni dalla prima, la Galleria de’ Foscherari di Bologna dedica una seconda personale ad un protagonista “silenzioso” dell’arte contemporanea degli anni ’70 e ’80: Giovanni D’Agostino (Catania 1932 – Bologna 2000). Ha iniziato a esporre nel ‘55 e nel frattempo ha insegnato nelle Accademie di Belle Arti di varie città italiane, tra le quali Urbino, Firenze, Bologna e Milano. In mostra sono presentate sette opere rappresentative dei 3 cicli più importanti del lavoro dell’artista che vanno dagli anni ’70 agli anni ’90: le cere, i gong e gli ipotesti. L’arte di D’Agostino si concentra prevalentemente su due elementi: la luce – da intendere come pensiero cristallino, esperienza assoluta, principio fondante – e la ricerca su materiali come la cera, i petali, il rame, i fiammiferi, gli aghi di pino a cui l’artista attribuisce un intenso valore espressivo. A risaltare è l’aderenza alla realtà: chi ha avuto modo di conoscerlo personalmente, infatti, ritrova nella sua produzione artistica gli affetti, la passione per la poesia, oltre ad una certa fragilità compensata però da una forza e perseveranza nello sviluppo di una ricerca convincente.
Le cere: Agli inizi degli anni Settanta, D’Agostino si concentra su un tipo di lavoro che risente fortemente di un “peso” poetico illeggibile, il quale, in un momento successivo, diventerà più chiaro grazie a segni primari incisi nella cera secondo un rapporto spaziale del tutto consapevole. In particolare, la cera – prodotto organico, extra-pittorico, solido e malleabile al tempo stesso – si presta, tramite lievi pressioni, a segni che possono essere tracciati e cancellati all’infinito, tramutandosi così in un materiale in grado di ricevere e testimoniare atti avvenuti nello spazio e nel tempo. Pertanto, la cera si fa anche portatrice di memoria. In un testo del 1983, D’Agostino spiega: «Alla fine degli anni Settanta ho realizzato “quadri” di cera senza aggiungere altri materiali; ero riuscito finalmente a eliminare anche il precario, il poetico. L’aria si introduce nelle sottrazioni, ma non cerca rapporti: si fa magica. Evidenzia l’empirico, l’assenza deliberata di qualsiasi progetto». Infine, queste opere sono il risultato di un affascinante contrasto tra la solidità della cera, del rame e della vernice e la precarietà della foglia, nonché del petalo che D’Agostino spesso “imprigiona” sul supporto diafano. La luce gioca un ruolo importante, poiché filtra attraverso la cera consentendo ai segni di galleggiare in un’atmosfera evanescente.
I gong I Gong sono superfici di cera nera che lasciano spazio a leggere inflessioni, di cui alla galleria de’ Foscherari è possibile ammirare tre esemplari riconducibili ad un’unica installazione. Anche in questo caso la descrizione dell’artista torna utile per comprenderne il senso: «[…] vi è come una sorta di suono sordo; si tratta di un processo mentale che nella sua a-referenzialità cerca di dar corpo al vuoto. Una materia liquida e poi densa, che per la sua impalpabilità risulta antimateria, costituisce i fondamenti del linguaggio». Sono risonanze acustiche che sembrano espandersi progressivamente nello spazio, creando silenti vibrazioni che si spingono oltre i confini dei quadri. Le ampie campiture monocromatiche sono pervase di un magma invisibile in continuo ribollio, in grado di generare un ritmo musicale strozzato. Forte è il desiderio di comunicare qualcosa che non riesce a svelarsi, che rimane soffocato in un silenzio assordante.
Gli Ipotesti Per quanto riguarda la serie degli Ipotesti, nelle sale della galleria bolognese sono esposte cinque opere anche stavolta riconducibili ad un’unica installazione. I quadri, rettangolari e di grandi dimensioni, si compongono di carte blu, le cui sfumature cromatiche oscillano progressivamente dal chiaro allo scuro. Sul supporto cartaceo l’artista lascia un segno ripetuto in maniera quasi ossessiva che riproduce una cancellazione. Una sorta di scrittura che non rimanda ad alcun significato, ad alcun senso logico, se non soltanto a quello che noi di solito attribuiamo ad un errore, a qualcosa che non si vuole venga letto. Anche qui vi è un forte legame con il ritmo, con la melodia, illustrato molto bene dall’artista stesso con queste parole: «Ciò che giustifica secondo me questo lavoro è il fatto che rappresenta uno degli aspetti del tempo, che è il ritmo. Questo ritmo non ha pause, è un ritmo continuo, e la limitazione che va da un punto all’altro della superficie è inevitabile, perché la superficie ti costringe a questo. Ma il lavoro in se stesso è qualcosa di molto diverso, cioè è qualcosa che tu puoi accostare e guardare all’infinito. Quando parlo di ipotesto, riferendomi a questi lavori, intendo dire proprio questo: dal momento che non crea un’immagine, o meglio che l’immagine è fatta da questo ritmo continuo, e casomai è un’immagine di luce o di segno, è ancora una volta una sorta di fantasma che vuole essere letto al di là del visibile».
Nata a Bologna nel 1982, vive e lavora tra Bologna, Milano e Roma. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna, oggi è curatrice indipendente di mostre d’arte in Italia e all’estero. Iscritta all’ordine dei giornalisti, scrive articoli di arte per Il Resto del Carlino e per altre riviste del settore. Sportiva, appassionata di viaggi e… totally art addicted.
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