Lo scorso 19 dicembre, nella sede trentina di Boccanera Gallery, Giulio Boccardi presentava Sodalizio, un progetto artistico, performativo, in due atti. Il primo, Il rituale, dal 19 al 21 dicembre – non per caso nei giorni del solstizio d’inverno, ma per fine conoscenza: è il momento in cui gli alberi sempreverdi diventano un simbolo trasversale a varie culture per celebrare il giorno più corto dell’anno – ha visto Boccardi impegnato per tre giorni consecutivi a camminare, in cerchio, tenendo tra le braccia il primo degli alberi che saranno piantati attraverso il progetto nel corso del secondo atto, La riforestazione, in programma entro giugno 2025. Attraverso la sua azione (questa, ma non solo) Giulio vuole risvegliare una coscienza collettiva, che veda essere umano e natura uniti grazie alla consapevolezza di una dimensione spirituale condivisa, invitando a riflettere su temi universali come la speranza e la continuità della vita e ad assumersi una responsabilità personale nei confronti dell’ambiente e della natura attraverso una partecipazione attiva. Facciamocelo raccontare da lui.
Giulio, dieci giorni fa iniziava il primo atto di Sodalizio. Cosa resta?
«Resta innanzi tutto il mio vissuto interiore. Tuttora le esperienze provate nel compiere Il rituale negli spazi di Boccanera Gallery continuano a farsi sentire nel profondo e sto lentamente cercando di portarle alla luce della razionalità. Camminare in cerchio da giovedì a sabato, restando a digiuno e concedendomi solo qualche ora di sonno, è stata una pratica che ha alterato il mio corpo a tal punto da arrivare a sentirlo come ente appartenente al mondo: tra la pianta e le mie mani non c’era né distanza né differenza. La ripetizione perpetua di una stessa azione per lungo tempo richiede molta concentrazione mentale. Una volta che il corpo prende il ritmo sembra muoversi di volontà propria. Allora non resta che fargli compagnia, mantenendo una mente quieta, non farsi distrarre dai pensieri, fondersi col silenzio, sentire la fame, sentire la fatica, annullare il tempo, vivere lo spazio e sentire il vuoto fino ad abitare la semplicità dell’esistenza: è una sorta di catarsi passando attraverso la sofferenza. Abitare quella dimensione dell’esistenza pura e semplice è uno stato di coscienza che ti unisce al mondo, è restare in contatto con la forza essenziale che abita ogni forma di vita, la stessa che fa crescere le piante. Tutto il resto sono solo distrazioni».
Sodalizio prevede un secondo atto. Cosa puoi raccontarci?
«Si, La riforestazione, il secondo atto del progetto. L’albero con cui ho realizzato Il rituale all’interno della galleria è solamente il primo di tutti quelli che verranno piantati nel futuro bosco della Panarotta. Chi vuole partecipare al progetto, può adottare un albero e, chi riuscirà a essere presente a questo secondo atto, potrà piantarlo con le proprie mani all’evento di messa a dimora, che si terrà la prossima primavera (link al progetto: www.wownature.eu/wowlanding/sodalizio). “Sodalizio” rappresenta un vero e proprio patto spirituale tra essere umano e natura. Il primo atto voleva essere una cassa di risonanza per diffondere una coscienza in grado di rimettere la vita naturale al centro. Prendersi cura della natura, esseri umani compresi, è l’opera d’arte più grande. Tutti noi siamo già parte di questo capolavoro, ma tanti di noi sono ancora inconsapevoli di esserlo. Per me la vera bellezza è proprio la cura della natura, che va riconosciuta come una questione collettiva, che richiede molta responsabilità individuale e una profonda consapevolezza interiore. La natura stessa sa indicarci la via: a noi rimane la capacità di sentire e ascoltare la sua voce!».
Noi ci siamo conosciuti un anno fa, in occasione di In nome del cielo, una performance tra terra e cielo, dove tu, sospeso su un’alta colonna con schermi che riproducono catastrofi ambientali, sei rimasto per quattro giorni consecutivi sulla cima. Anche allora, come oggi ti sei impegnato in un costante esercizio fisico e mentale. Che valore dai all’esercizio nel tuo percorso artistico?
«L’esercizio è una pratica che compio nel quotidiano, anche al di fuori del percorso artistico. Per me la performance non ha nulla a che fare con la recitazione: si tratta di un atto di sincerità ben contestualizzato da un setting e da una temporalità definiti. La natura soffre e io scelgo di soffrire con essa per aprire le porte all’empatia e alla compassione. Proprio per questo motivo i miei lavori, visti dall’esterno, possono sembrare delle penitenze. A Bologna sono stato al freddo per quattro giorni, svegliandomi con la brina addosso, ma l’aspetto che mi faceva più paura era il rischio di impazzire. Superata la paura, c’è stata solo la pace. Abbiamo timore nell’affrontare le profondità della nostra mente e continuiamo a occuparla con valori illusori, che in realtà generano altra sofferenza. Abbiamo perso la capacità di abitare l’essenziale e di vivere la dimensione della natura (l’indefinito). La dimensione esteriore e la dimensione interiore non sono così separati come appaiono. La condizione contemporanea della natura è un silenzioso riflesso della condizione umana: siamo in crisi. Il mio esercizio è opporsi a questa tendenza. Ciò che cerco di trasmettere è la riscoperta di una dimensione spirituale condivisa con gli elementi naturali: anche se non ce ne accorgiamo, ogni cosa è in relazione e abbiamo delle responsabilità. Prendendone atto si può contribuire al cambiamento».
Le tue performance sono spesso una presa di posizione. Penso anche a Eden, al MUSE. Quando e come hai iniziato a intrecciare riti ancestrali, sciamanesimo e critica, ferma e puntuale, e come riesci a richiamare l’attenzione della coscienza collettiva?
«Credo che in noi esseri umani r-esista una visione della natura primitiva. Abbiamo ancora delle memorie lontane, che restituiscono un’idea di natura incontaminata. La dimensione del rituale, messa in atto con un approccio tanto corporale quanto meditativo, apre le porte alla spiritualità ed è in grado di rievocare questa idea di “natura primordiale”. Quando questo contenuto mentale si scontra con ciò che veramente è la natura nell’era dell’antropocene, accade allora un conflitto interiore: il confronto che sorge – tra contaminato e incontaminato – è necessario per comprendere e attuare un cambiamento. Ogni mio lavoro riflette su varie criticità relative al rapporto uomo-natura nell’epoca contemporanea, ma ciò che propongo con costanza è che oggi è possibile e necessario rinunciare. Rinunciare oggi è la forma più nobile di rivoluzione, richiede consapevolezza e responsabilità, fermezza d’animo e azione: l’iperproduttività e l’estrattivismo sono modelli da abbandonare in fretta, e affinché ciò sia possibile credo che le persone debbano ricominciare a guardare dentro di sé e non negli oggetti o in valori effimeri».
La performance è il medium adatto?
«La performance si presta molto bene per richiamare l’attenzione collettiva, perché il canale di comunicazione è il corpo umano stesso. I significati si trasmettono direttamente attraverso la relazione umana, è un punto a favore di questo medium, perché c’è un diretto coinvolgimento empatico del fruitore e risulta più facile creare una connessione. Gli altri medium soffrono una bulimia di informazioni che li mutila a priori: le immagini – con qualsiasi tecnica siano prodotte – richiedono contemplazione, tempo e soprattutto impegno. Le persone ne vedono migliaia al giorno, una bulimia senza fine che finisce con l’appiattimento totale dell’immagine stessa. Siamo sempre più sulla superficie a discapito di quell’atto magico di affacciarsi a quella finestra che chiamiamo arte. Avere troppo è come avere niente. La performance, però, gode ancora di un principio arcaico e forse eterno, di un valore al quale l’essere umano non potrà mai rinunciare: appunto, la relazione».
Che cosa può oggi, secondo te, la coscienza collettiva?
«La coscienza collettiva è un campo spirituale condiviso. Si tratta di un insieme complesso di contenuti interiori, che sono trasversali a un vasto numero di individui. Quando ciò accade succede qualcosa di magico, sorge un organismo collettivo impegnato nel perseguimento dei valori derivati da questa coscienza, è una forza interiore in grado di modificare il mondo. Oggi questa forza già esiste: condividiamo una visione antropocentrica e abbiamo permesso l’affermarsi del neo-liberismo, ottenendo una società capitalistica globale con tutti i suoi pregi e difetti. Io credo che una coscienza debba abbracciare tutte le sfere dell’anima umana: il pensare, il sentire e il volere. Quando questi aspetti sono allineati con coerenza accade un dialogo armonico tra spirito e materia che dà vita alla bellezza. Il materialismo che dilaga ci porta a vivere principalmente nella sfera del pensiero, ma una cultura senza fondamenta spirituali continua a ritorcersi su se stessa senza fini. Chi parla di egemonia tecnica ha colto il punto, la cultura contemporanea non si basa di certo sui sentimenti d’amore, anzi la competizione è lo strumento prediletto per “migliorare”. Non mi stupisce che la guerra sia legittimata. Riscoprire la propria interiorità e comprendere che in fondo siamo un tutt’uno con la vita naturale, potrebbe insegnarci a curare la natura, senza mettere in disaccordo nessun*. Dedicarsi assieme a qualcosa di più grande di noi stess* è un modo per ritrovare l’orientamento della bussola».
Movimento permanente. Contatto diretto. Relazione locale. Superare i limiti. Correre i rischi. Energia mobile. Vulnerabilità estesa. Esposizione al caso. Reazioni primarie. Come ti trovi rispetto a queste posizioni, radicali ai tempi dell’Art Vital? Ce l’hai anche tu un manifesto?
«Guardo al manifesto dell’Art Vital come farebbe un allievo, pur rimanendo profondamente anarchico. Come scrivevo prima per me – così come per Abramović e Ulay – la performance non ha nulla a che fare con la recitazione. Si tratta di unire arte e vita in un unico involucro: è per questo che spesso i miei lavori si configurano come performance abitative. Il manifesto dell’Art Vital è una raccolta di linee guida per essere il più sinceri possibile con se stessi e con il pubblico, lasciando teatralità, spettacolo e recitazione a chi si occupa di altri mestieri. Io non ho un manifesto. Per ora mi piace il pensiero di poter cambiare idea. Non sono un amante delle rigidità. Il mio lavoro sorge da uno stretto dialogo con la dimensione naturale: vivo sulla soglia del bosco e abito la natura per gran parte delle mie giornate. Qui ci sono più suoni che parole, esploro costantemente la dimensione mentale grazie agli insegnamenti provenienti dalla cultura orientale, critico la società occidentale – ormai globale – e cerco di mantenermene alla giusta distanza. Tutto ciò si riversa nella mia arte. I lavori che realizzo sono dedicati più alla natura che agli esseri umani: mi piace pensare di essere un mediatore che porta alla luce un legame trascurato».
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