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Gli anni ’60, la Salita, e il Grand Tour di Richard Serra
Arte contemporanea
“Richard Serra: Animal habitats live and stuffed…” è la mostra estiva cui è dedicato lo studio bibliografico del MACRO di Luca Lo Pinto: una ricostruzione della prima personale giovanile dell’artista statunitense alla Galleria La Salita di Roma, inaugurata il 24 maggio del 1966. L’esposizione, realizzata con il coordinamento curatoriale di Sara Catenacci, visitabile fino al 9 ottobre, raccoglie rari documenti fotografici e cartacei mai presentati prima appartenenti alla Collezione Giuseppe Garrera, attraverso i quali è possibile ricostruire ed esperire una mostra leggendaria che è passata alla storia per la sua portata avanguardistica e per una volontà di negazione del suo stesso autore. Sono gli anni Sessanta quando Richard Serra viaggia in Italia per compiere il proprio grand tour personale, attratto dalle bellezze Rinascimentali di Firenze e dalla storia di Roma, ma forse quello che più lo colpisce e lo affascina è la vita cittadina dei mercati, l’italianità nelle sue forme più tradizionali, il mezzogiorno magico. Tutti elementi che ritroviamo nelle immagini qui esposte di una mostra, definita dallo stesso Serra più come un “saggio giovanile” e poi rinnegata, che entrò nella leggenda per una serie di rumores e luoghi comuni che in un qualche modo spinsero l’artista a volersene dimenticare per anni. Lo scandalo? Il fatto che dentro alla Galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, un appartamento nei pressi di Piazza di Spagna, erano stati esposti degli animali vivi.
E questo avveniva ben prima del pappagallo di Kounellis o de “Lo Zodiaco” di De Dominicis, che negli anni immediatamente successivi sdoganarono tale pratica nelle gallerie della Capitale, passando alla storia. Avveniva per la prima volta in un momento in cui l’arte contemporanea non era pronta, forse nemmeno lo stesso Serra, che però ebbe l’audacia di creare dentro le sale immacolate de La Salita una Wunderkammer di gabbie sporche, mobilacci di seconda mano, bidet e tutta una serie di improbabili reperti raccolti dalla strada, come palloni da calcio e guantoni da boxe. Per non parlare, appunto, della vita che abitava la babele di oggettistica con versi e odori di ogni sorta, che di certo non risultarono graditi agli occhi dei collezionisti romani: gallinelle, uccelli, coniglietti e persino un famoso maialino – unica effige della mostra rimasta pubblica e diffusa dalla stampa – cui l’artista dava personalmente da mangiare. Oggi possiamo apprezzare in questo “esperimento”, come Serra ama definirlo, tutta la capacità di un giovane artista di distruggere la tradizione, di far uscire lo spettatore dagli schemi dell’arte canonica per reimmetterlo attraverso un’altra porta, quella del ricordo agricolo in tutta la sua poetica drammaticità, rappresentato da vere e proprie sculture viventi di cui possiamo percepire elementi come l’arte povera, il valore dei materiali, il surrealismo. Nelle sale del MACRO abbiamo dunque per la prima volta l’occasione di vedere, attraverso scatti originali, com’era veramente questa mostra, senza nessuna pretesa di ricostruire le opere originali (che sono andate perdute). Veniamo accolti all’ingresso da una piantina che rappresenta la galleria, con l’indicazione di come erano disposti i vari nuclei di oggetti.
Alle pareti, le fotografie dello Studio DUfoto di Roma, che all’epoca realizzò un servizio ufficiale per una tentata vendita (evidentemente impossibile) e altre immagini che riprendono l’allestimento dello spazio, qui posizionate immaginando di ricostruire le originali collocazioni delle opere. Per aiutarci a decifrarle, sono state realizzate lunghe didascalie che riportano le parole di un prezioso scritto rinvenuto in cui viene descritto nei minimi dettagli ogni oggetto esposto, come in un’ekphrasis premonitrice di un’imminente distruzione. Ed ecco che all’improvviso tutto diventa colorato e vivo ai nostri occhi, come se ci trovassimo veramente lì: “Partendo da terra, la prima gabbia ospita due tartarughe vive, in una scatola di latta senza coperchio. Le tartarughe strisciano su un giaciglio di terra, fili d’erba secca e rametti. C’è anche una ciotola da cui bere. Seconda gabbia: in primo piano si osserva una lunga asta di materiale non identificato spezzato all’estremità, potrebbe trattarsi di stracci aggrovigliati immersi in calce e poi lasciati indurire. Al centro, quella che sembra essere una vecchia bardatura marcescente, un oggetto a forma di fiasco e fil di ferro”. O ancora: “Un’altra dispensa color porpora contiene un’enorme campana di vetro trasparente, imbrattata con vernice bianca sulla parte superiore. All’interno il solito pallone da calcio sgonfio e un oggetto rosso non identificato. La campana di vetro poggia su un sacco bianco imbottito”.
Siamo stati trasportati in una galleria tradizionale dov’è successo qualcosa di assolutamente nuovo, dov’è entrata una vita fortissima e sconvolgente. La mostra è corredata da una copia del catalogo originale, oggi introvabile, e da un cinegiornale recuperato da Rai Teche, in cui il giovane Serra, intervistato da un sarcastico telecronista che lo definisce “un uomo che fa a meno dei pennelli”, spiega con cristallina semplicità: “io ho fatto questa mostra perché credo che l’arte può essere ogni cosa, come ogni cosa può essere arte”. Un appuntamento collaterale è previsto inoltre per il 16 settembre alle ore 18.30, all’interno della rassegna “Un’opera” del MACRO, dove il collezionista Giuseppe Garrera racconterà da un punto di vista filologico l’operazione compiuta da Richard Serra in questa mostra.