Con le sue dita rapidissime e precise, un funzionario di corte dell’imperatore Huayna Cápac intreccia una serie di cordicelle di vario colore, disposte in gruppi e sottogruppi fittamente collegati. Per la civiltà Inca, il linguaggio amministrativo della memoria, della conservazione, dell’archiviazione, della registrazione, ma anche quello dell’informazione, della comunicazione di concetti e indicazioni, inventari, calcoli astronomici, formule rituali, si svolgeva come una successione di nodi che noi, oggi, possiamo interpretare solo per tentativi, per ipotesi più o meno suggestive. Nonostante gli studi in merito, i quipu, che furono proibiti dai Conquistadores ma che, in alcune zone delle Ande, ancora si annodano, rimangono oggetti aperti ed è la loro muta saggezza che Oscar Santillán interroga, per la sua prima mostra alla Galleria Tiziana Di Caro, a Napoli. Perché qualunque tecnologia, anche quella proveniente da un passato in parte misterioso, ogni strumento creato e adoperato per la diffusione del sapere, può aiutarci ad assumere uno spostamento di senso e di sensibilità, una disponibilità alla comprensione non lineare.
Curata da Alessandra Troncone, l’esposizione rappresenta una tappa nell’ambito di un’ampia ricerca che ha portato l’artista ecuadoriano, nato nel 1980, a combinare diverse branche della scienza e vari filoni dell’immaginazione, tra antropologia, informatica, sociologia, fantascienza, cosmologia, per decostruire la solida, granitica, attitudine modernista occidentale. Anche in senso letterale: nel 2015, per The Intruder, Santillàn ridusse la misura della Gran Bretagna, asportando una parte di roccia dalla cima dello Scafell Pike, la montagna più alta dell’Inghilterra. Pietre dure, conglomerati dalle forme fantastiche, frammenti di meteoriti, gusci di insetti, geometrie dall’aura sacrale, sono esposti anche negli spazi della galleria napoletana, insieme a grandi fili coloratissimi e indistricabili. Abbiamo raggiunto l’artista e la curatrice, per farci dire di più.
Dalla civiltà Inca alla “Lettera apologetica” di Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, lungo il filo dei quipus, la personale da Tiziana Di Caro mette in evidenza una sorprendente corrispondenza, che riunisce tempi, spazi e circostanze apparentemente distanti. Potete parlarci di questa coincidenza e di come è nata e si è sviluppata la mostra?
«La mostra “A Breathing Mountain” è il risultato di una ricerca congiunta che abbiamo intrapreso ormai nel 2018 e che è confluita nel 2020 nel libro “The Andean Information Age”, pubblicato da Bom Dia Books. Tutto ha inizio dalla nostra fascinazione per i quipu, manufatti in uso presso le civiltà andine precoloniali che per mezzo di nodi svolgevano una funzione di registri, principalmente in termini contabili ma che, con ogni probabilità, rappresentavano anche un possibile sistema di scrittura, forse idiomatica. Oscar stava già svolgendo ricerche in Perù, dove tra l’altro era incappato in un quipu molto raro fatto di capelli umani. Da alcune ricerche incrociate, abbiamo scoperto che il Principe Raimondo di Sangro è stato tra i primi in Europa a tentare una decodificazione dei quipu, che sono al centro della Lettera apologetica pubblicata nel 1751 (il sottotitolo del libro è appunto “contenente la difesa del libro intitolato Lettere d’una Peruana per rispetto alla supposizione de’ Quipu scritta alla duchessa di S****”). Ci siamo entusiasmati per questo collegamento tra il Perù e Napoli, che abbiamo poi scoperto tornare in storie anche molto più recenti, in particolare attraverso il mistero dei controversi documenti Miccinelli, manoscritti trovati a Napoli negli anni ’80 che mettono in discussione molti aspetti della storia andina e parlano ampiamente del quipu.
A partire da questi episodi abbiamo immaginato temi più ampi, legati ad altri modi di rapportarci al mondo di cui i quipu si fanno portavoce grazie al loro codice materiale tridimensionale, molto diverso dalle rappresentazioni bidimensionali della conoscenza ereditate dall’Occidente, che noi tutti mettiamo in atto al giorno d’oggi quando scriviamo su un pezzo di carta o fissiamo lo schermo dei nostri smartphone.
La nostra conversazione si è fatta quindi a tre voci con Tiziana Di Caro, con la quale abbiamo iniziato a progettare una mostra che parlasse di questi temi. Tutte le opere esposte sono state prodotte per questa occasione specifica».
Scienza, tecnologia, archeologia, antropologia, storia, mitologia, ritualità, sacralità, cosmologie dell’America Latina e immaginario cyber, sono tanti i linguaggi che si intrecciano in questa mostra e, in generale, nella ricerca di Oscar Santillán. Tra le righe di questo dialogo che si svolge sullo stesso piano, senza gerarchia di valori, è possibile leggere una messa in discussione dei concetti “solidi” – egemonici – di realtà, cultura, civiltà, che caratterizzano la società occidentale?
«Il concetto di “Antimundo” che è ormai un tema portante della ricerca di Oscar Santillán parte proprio dall’idea che sia possibile reinventare il nostro approccio nell’osservare e analizzare la realtà che ci circonda. Una via alternativa che mette in discussione i parametri su cui si basa la scienza moderna occidentale, andando a recuperare lontano, nello spazio e nel tempo, chiavi di lettura per il nostro presente, dove tecnologie arcaiche mostrano inaspettate attinenze con la ricerca ipertecnologica. Ad esempio, tra le opere in mostra c’è Codex (A Thousand Years of Non-linear History) che insiste sulla possibilità di una storia circolare, e non lineare: tessuti provenienti da diversi secoli dell’ultimo millennio sono intrecciati insieme facendosi compendio di mille anni di storia materiale, annodata come un quipu».
Imponenti lightbox dalle geometrie ambigue, “sculture” fatte di tessuti intrecciati, bacheche (fanta)tassonomiche dense di elementi, tra minerali, insetti e disegni, proiettori didattici hackerati e ticchettanti in una sala oscura. Insomma, la ricerca di Oscar Santillán è ad amplissimo respiro e scorre al di là dei margini, eppure riesce a esprimere una materialità formalmente curata e presente nello spazio. Attraverso quale processo, materiali, concetti e contenuti sono riusciti a trovare questa sintesi?
«Uno dei fil rouge della mostra “A Breathing Mountain” è un’impostazione “classificatrice” che però viene rinnegata dai materiali e codici “inclassificabili” che entrano in gioco. Dunque lo sforzo di incasellare i fenomeni si trasforma in un immaginario visionario, aperto a ogni sviluppo. Nelle immagini presenti nei lightbox, proviamo a distinguere elementi familiari che però si coagulano in una forma non descrivibile (uno dei titoli è Antibeing, quindi un “anti-essere”); nelle tavole dal titolo Module for the Rediscovery of Life, frammenti provenienti dal mondo animale, vegetale, minerale si ricombinano con altri elementi per suggerire un universo in definizione; in The Andean Information age, un vecchio proiettore di diapositive viene usato come possibile strumento didattico per raccontare cosa sono i quipu, ma le immagini che scorrono sullo schermo non sono illustrazioni didascaliche, anzi aprono tanti possibili scenari. La sintesi è in un approccio metodologico che ricalca quello scientifico ma al tempo stesso lo rifiuta, generando visioni sempre inaspettate».
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