Il museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Saint-Etienne Métropole, nella regione Auvergne-Rhône-Alpes, dà carta bianca al curatore sudafricano Ntshepe Tsekere Bopape in arte Mo Laudi che presenta la mostra “Globalisto, una filosofia in movimento”. Artista multidisciplinare, pioniere dell’afro-elettro e DJ, Mo Laudi in questa collettiva sfida lo status quo e critica i sistemi di potere per restituire nuove letture storico-artistiche. Se l’arte, ormai da tempo, ha oltrepassato i confini nazionali o regionali, una parte delle attività economico-commerciali intravedono nel glocalismo una soluzione alla sperequazione causata dalla globalizzazione, secondo la formula agire locale e pensare globale. In questa ottica si inserisce “Globalisto, una filosofia in movimento”, che si ispira ai principi umanisti del Botho o Ubuntu. Un termine in lingua zulu che si traduce con la nostra umanità, il cui significato racchiude sia qualità personali di empatia relazionale che di inclusione sociale radicale.
Si tratta comunque di un vecchio concetto africano che è ridiventato popolare con lo stabilirsi della democrazia in Sud Africa, e che l’apartheid aveva screditato. Un modo diverso di percepire i rapporti tra l’individuo e la comunità che ha ispirato le opere qui esposte. Sono presentati dipinti, sculture, fotografie, tessuti, ceramiche, performance, installazioni, NFT, video e suoni, libri, riviste come Drum o Revue Noire di 19 artisti di generazioni diverse provenienti dall’Africa e dalle sue diaspore come Sud Africa, Camerun, Egitto, Gabon, Malawi, Mozambico, Nigeria, Tanzania, ma anche dall’Europa, Caraibi o Stati Uniti. Un’ottima occasione per vedere artisti storici come il pittore, disegnatore e musicista sudafricano Gerard Sekoto (1913-1993), qui con The Song of the Pick (1947). Si tratta di un dipinto iconico che rappresenta con sensibilità e veridicità un gruppo di operai agricoli neri di una township sudafricana durante l’apartheid. Pioniere dell’arte urbana nera, Sekoto è stato il primo artista nero a entrare in una collezione museale in Sud Africa. Ricordiamo che le sue opere giovanili sono rarissime, e questo dipinto è dunque un prestito eccezionale che viene dal Sud Africa.
Sam Gilliam (USA, 1933–2022), artista associato alla Washington Color School e impegnato nel movimento per i diritti civili, esprime con la sua arte la volontà del cambiamento sociale totale. Gilliam partecipa nel 1972 alla Biennale d’arte di Venezia, diventando il primo artista africano-americano a rappresentare il padiglione statunitense insieme ad artisti emblematici di quel periodo. È qui esposto Cape II (olio su tela, 1970), uno dei primi dipinti su tela drappeggiata, cioè liberato dal formato tradizionale rettilineo. L’opera fa parte della collezione pubblica del MAMC di Saint-Etienne che l’ha acquistata nel 1971. Inoltre, l’artista è stato presente con tre magnifiche opere monumentali nella collettiva La Couleur en fugue presso la Fondation Louis Vuitton di Parigi, fino allo scorso agosto.
A Game of War: Kambalu v Sanguinetti Trial at Ostend (2021) di Samson Kambalu (1975, Malawi), è un’installazione il cui video di due ore e dieci presenta una versione ironica del processo dell’artista stesso, accusato di violazione dei diritti d’autore da Gianfranco Sanguinetti. Siamo nel 2015 alla Biennale d’arte di Venezia quando l’artista malawiano, sulla scia dei principi dell’Internazionale Situazionista, espone delle fotografie, da lui stesso scattate, dei documenti degli archivi di Sanguinettii. I situazionisti, a cui Gianfranco Sanguinetti apparteneva insieme a Guy Debord, professavano la libera riproduzione delle opere e vedevano nel détournement il riscatto della pratica artistica dai dispotici diktat culturali. Alla fine Kambalu viene assolto da ogni accusa poiché la sua opera, giudicata originale, non violava di fatto i diritti d’autore. L’installazione è inoltre arricchita da graffiti provocatori che guardano alle regole del War Game ideato da Debord. Il video, del falso processo, è accessibile gratuitamente online. L’artista multimediale, Wilfried Nakeu (1990, Camerun) porta qui Reconnexion spirituelle des politiques africaines (2022), un video di 9 minuti battuto all’asta come NFT. Di questo oggetto ne decostruisce il principio fondatore, cioè l’insieme di dati memorizzati sulla blockchain, che diventano oggetti rituali vudù. Un NFT afro-futurista dunque, che testimonia come l’era digitale abbia fluidificato gli scambi di idee e il mescolarsi di culture diverse. Espone lo stesso Mo Laudi con Rest-itution (Renaming a collection). Who owns the past owns the future (2022), un’installazione effimera che corrobora l’attuale dibattito sulla provenienza delle opere africane presenti nei musei occidentali.
Il percorso accoglie qualche artista di cui abbiamo parlato in passato come Lubaina Himid (1954, Tanzania), vincitrice del premio Turner nel 2017 e promotrice del movimento British Black Arts, i suoi lavori evocano storie e leggende delle diaspore africane. Otobong Nkanga (1974, Nigeria) presente con Beyond the Skin I e II ( 2021) e Myriam Mihindou (1964, Gabon) che troverete nell’onpaper Exibart 111. Troviamo anche Euridice Zaituna Kala, Arthur Jafa, Elsa M’Bala, Josèfa Ntjam, Sara Sadik o Dread Scott. Si è parlato anche molto di imbizo, che si traduce con ‘raduno di comunità’, per un tuffo nel pensiero panafricano che ha animato tavole rotonde, performance, scambi aperti tra pubblico e artisti, nell’evento Imbizo Part.2 Symposium. Aperto fino al 16 ottobre, questo percorso propone nuove chiavi di lettura della storia dell’arte e alternativi processi percettivi del mondo.
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