Guglielmo Castelli, classe 1987, torinese. Una pittura fuori dal tempo, la sua, quasi un sogno accennato, a tratti impellente, in qualche modo reale. A New York, fino al 29 aprile, Mendes Wood DM ospita Demonios Familiares, «la presentazione più completa e complessa dell’artista» – dicono dalla galleria – «esposta fino ad oggi». Un mix esatto di lavori di grandi e piccole dimensioni, sia dipinti ad olio sia opere su carta, ci sono anche collage, perfino una scultura. I protagonisti assoluti: corpi e ombre forse minacciosi, che incedono, incerti, in paesaggi ancor meno tradizionali. Eppure attivi, senz’altro vivi, mai semplici spettatori. Si ritrovano a danzare con i demoni, piuttosto che scomparire. Ne abbiamo parlato direttamente con l’artista – in testa una canzone, tra le mani un libro incompiuto. La tensione verso un lieto fine.
Una personale nella sede newyorkese di Mendes Wood, uno dei giganti dell’art system internazionale, in continua espansione. La prima domanda è quasi d’obbligo: a che punto sei arrivato, nella tua produzione? Come definiresti questa fase della tua carriera?
«Nell’album Cosa vedi del 2000 dei Marlene Kuntz, quando ancora si compravano cd, vi era una citazione che penso possa descrivere bene il momento attuale: “Rimase come sospesa, scolpita in una specie di cerea flessibilità, e la si sarebbe potuta credere in contemplazione di suoni luccicanti o in ascolto di visioni in risonanza, per quanto singolarmente straniata la rendeva quel rapimento incantatore. -“Dimmi che cosa vedi”-, le chiese, – “Dimmi che cosa vedi”- . Ella prese a cantare…”. Mi trovo in un bellissimo momento dove, finalmente, altre domande sulla pittura mi si sono presentate e con esse dipingo cercando, disinnescando, riassemblando con più maturità, forse, con più strumenti e curiosità. Ecco, penso di trovarmi e sentirmi cosí; con una beneducata anarchia creativa».
Quali sono, con il senno di poi, le esperienze artistiche che più di altre ti hanno preparato a questa nuova fase?
«Penso siano state le contaminazioni dagli altri mondi, quello teatrale, quello cinematografico, quello della moda. Senza mai chiedermi cosa ne avrei fatto di quei semi creativi che comparivano in me quasi per caso, quasi sussurrati, ma che sentivo che prima o poi sarebbero fioriti nella mia pittura, e così è stato. Conciliando quello che speravo con quello che trovavo».
Mendes Wood si prepara ad aprire una nuova sede in Place de Vosges entro l’estate. Nella stessa città in cui, lo scorso ottobre, i tuoi dipinti erano in bella mostra tra i lavori della nuovissima Paris +. Vuoi dirci che cosa ha rappresentato per te la partecipazione alla prima edizione?
«Aver partecipato alla prima edizione di Paris+ è stato per me un grande onore, una grande possibilità di condividere con un grandissimo pubblico di qualità la serie di lavori “the Impossibile dance” e di questo, sono estremamente riconoscente alla mia galleria».
A proposito, qual è stata la risposta dei collezionisti allora?
«Diciamo che abbiamo brindato tutti insieme, felici sotto una Parigi piena di sole».
Ed eccoci ad un nuovo capitolo, stavolta tutto americano. Com’è nata l’idea di Demonios Familiares?
«Con Demonios Familiares ho tentato di rappresentare i tempi incerti in cui viviamo, le distanze, i tentativi, le andate e i ritorni pittorici, dove il vivere con i nostri demoni, alla fine, dopo la lunga battaglia può esser lieve».
Possiamo dire che si tratti di una narrazione quindi? Di un insieme di tanti episodi di un unico racconto?
«Demonios Familiares è una narrazione in frammenti, a volte affilati altre volte fragili, ma di un’unica storia. Un po’ come la mia pittura che si parcellizza, si fluidifica e si riaggruma».
Il romanzo Demonios Familiares di Ana Marìa Matute da cui è tratto il titolo della mostra è incompiuto, non sappiamo di fatto come va a finire. Cosa mi dici invece dei tuoi dipinti? L’impressione è che tutti si risolvano, o che comunque tutti i corpi tendano, in qualche modo, verso una sorta di lieto fine…
«I miei dipinti, tentativi anch’essi di narrazioni che si intersecano fra gli elementi rappresentati e quelli accennati, tendono, alla fine, ad un lieto fine, si. “Perché si combatte la buona battaglia e si conserva la fede”. Perchè seppur corpi svuotati da ossa, in bilico, sono presenti, occupano lo spazio scenico con decisione e ce la faranno, alla fine ce la fanno tutti».
È andata così anche con A house is not a home, l’ultima opera dipinta per la mostra?
«In A house is not a home mi è venuta in mente un’intervista di Carol Rama dove le chiedevano cosa intendesse lei per libertà. Sottolineava la relatività del concetto di libertà – per un piromane è, per esempio, dar fuoco alle cose. L’ultima opera, forse, intende quello… in mezzo a quella bellezza fiorita, a quell’hortus conclusus, avverrà un incendio. Ma si salveranno tutti, perché a volte il lieto fine è solo l’andare avanti».
Si sentono forti e chiari gli echi dalla letteratura, sia italiana che internazionale. Beckett, T.S. Eliot, tutto il filone esistenzialista in generale… Che cosa avevi in testa – o stavi rileggendo, forse – mentre realizzavi questi lavori?
«Avevo ripreso quel capolavoro della Trilogia della città di K di Ágota Kristóf, poi mi sono fermato un po’ fra Joan Didion e Toni Morrison. Vi ho trovato piccole scintille di meraviglioso dolore».
Qual è quindi il verso/la frase d’autore con cui riassumeresti l’intera esposizione
«Forse userei le parole di una scrittrice contemporanea, Veronica Raimo: “Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci. Fino a pensare che un dado può sempre dare cinque, benché non serva assolutamente a nulla”».
Una domanda per concludere. Sei un artista giovane, e da giovane artista ti chiedo: qual è il tuo pensiero circa le scalate ripide (e rapidissime) dei Millennials nelle aste internazionali? È un’idea che incentiva o che spaventa in qualche modo chi l’arte la produce?
«Le “scalate vertiginose” dei giovani artisti avvengono per meri motivi speculativi, come appare evidente. Ci sono collezionisti che non hanno interesse alla cura del lavoro e dell’artista, innescando questi meccanismi con una tensione volta principalmente al denaro ma, spesso, se ne conoscono i nomi. La vera questione è il lavoro. Se la pratica dell’artista rimane coerente, in continua ricerca e divenire allora quella è una “scalata” organicamente corretta. Tutto il resto, a me, non interessa. Perché la pittura sia per me sempre “un incendio nelle mie abitudini”».
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