Holobiont Rhapsody, Stach Szumski e Francesco Pacelli – eastcontemporary

di - 31 Dicembre 2020

Che forma ha l’invisibile? “Holobiont Rhapsody”, presso la galleria eastcontemporary di Milano, ce lo dimostra con le opere di Stach Szumski e Francesco Pacelli. La mostra è il secondo capitolo del programma curatoriale Odds Against Tomorrow, ideato durante il primo lockdown, e riflette sull’olobionte: termine coniato dalla biologa Lynn Margullis nel 1991 per indicare comunità microbiche strettamente integrate che formano un’unità fondamentale fissa alla base di ogni individuo.

In dialogo per la prima volta, i due artisti ci parlano di virus, batteri, e tutti quegli esseri che non vediamo ma che vivono in noi e intorno a noi. L’esposizione si sviluppa a partire dalla serie The Issue of Office Bacteria di Stach Szumski: quattro tele di grandi dimensioni, in bianco e nero, che rappresentano un ecosistema immaginifico. Dalla forte iconografia underground, simili alla street-art, ricordano opere d’arte digitale, ma sono il risultato di impressionante meticolosità e precisione: le forme astratte sono realizzate con acrilico e l’aiuto di un aerografo. Spesso ispirato dallo spazio in cui lavora, Stach Szumski predilige luoghi “disumanizzati”: fabbriche o uffici abbandonati, che pullulano nella zona in cui è nato, la bassa Silesia in Polonia. L’ispirazione nasce dall’energia emanata da questi luoghi decadenti, e così sviluppa anche la serie esposta: The Issue of Office Bacteria rende visibile il microcosmo ospitato sulla moquette di una serie di uffici a Varsavia; è stata esposta per la prima volta al Polana Institute della città, contaminando gli spazi polifunzionali dell’istituzione, ponendosi in netto contrasto con l’estetica dominante del luogo.

Holobiont Rhapsody, Installation view. Courtesy eastcontemporary e gli artisti, Milano 2020

Trasponendo l’immaginario di Stach Szumski, le opere inedite di Francesco Pacelli invadono il pavimento della galleria. Synthetic states of dissolution è un mosaico di forme minuscole in ceramica che strisciano su sentieri di sabbia artificiale contaminata a terra. Attivo a Milano, la ricerca artistica di Francesco ibrida immaginario collettivo e personale, creando forme familiari quanto destabilizzanti, improbabili ma plausibili. Lasciando libero il materiale dà vita ad un universo totalmente astratto, ma in qualche modo riconoscibile, affiancandosi al modus operandi di Stach Szumski. I due artisti dialogano anche visivamente: la serie Radar di Pacelli richiama le forme astratte di Szumski. Costituita da due piccoli quadri in grafite su carta, riflettono sul confronto col silenzio pandemico. Le forme rappresentano un pipistrello e un corallo che assorbe il suono, e ci riportano alle incisioni dei mirabilia conservate nelle Wunderkammer seicentesche.

Francesco Pacelli, Synthetic states of dissolution, dettaglio. Courtesy eastcontemporary e l’artista

Ci ritroviamo quindi in uno spazio ancestrale, estraneo e sporco. L’allestimento si allontana dall’aurea immacolata di un white cube per trasformarlo in un laboratorio d’osservazione. Le opere invadono il pavimento, sono quasi di intralcio al visitatore, evocando così la convivenza tra gli essere umani e gli Holobiont. Negando l’idea di uno spazio a misura d’uomo, o per l’uomo, e detronizzando la sua presenza sulla terra, le opere in galleria rievocano metaforicamente l’Ipotesi Gaia. La teoria è stata sviluppata dallo scienziato inglese James Lovelock e propone la visione di una Terra in cui gli organismi viventi e le componenti inorganiche contribuiscono alla formazione di un sistema autoregolante, che garantisce e perpetua le condizioni di vita sul pianeta. Richiamando la dea Terra (Gaia) della mitologia greca, le idee di Lovelock sono intrise di vitalismo e osteggiate dalla comunità scientifica. L’ipotesi è stata supportata dalla stessa Lynn Margulis, che, però, rigetta la personificazione di Gaia, sottolineando come invece sia «una proprietà emergente di interazione tra organismi» Si tratta di un teoria controversa, ma senz’altro affascinante: declassando l’essere umano ci fa riflettere su come non siamo i soli ospiti del nostro pianeta, e, probabilmente, nemmeno i protagonisti.

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