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Hormone Disruptors: i corpi di Luca Francesconi in mostra a Napoli
Arte contemporanea
Non siamo più le persone di una volta. Per esempio, le nostre identità, messe in discussione, ridefinite, reinterpretate attraverso diversi stati di consistenze fino a diventare altro, tra la proliferazione degli username e le intricate stringhe di linguaggio macchina. Eppure, per certi versi, quelle stesse identità, così sfuggenti dalla materia, sembrano rinsaldarsi a tripla trama alla dimensione organica dei corpi, sempre centrali nei grandi discorsi collettivi della politica, dell’economia o della cultura. Perché, per quanto smaterializzata e rarefatta, la nostra coscienza non può che elaborare la sensazione di uno schiaffo – pur se affettuoso e quasi una carezza – magari ricevuto da un saggio maestro, come racconta un’antichissima storia taoista. Ed è a questa innegabile dimensione scultorea – oltre che gestuale – dell’identità che si ricollega, almeno dal punto di vista del metodo, parte della ricerca di Luca Francesconi che, per la sua ultima mostra alla Galleria Umberto Di Marino di Napoli, presenta un nuovo progetto incentrato sulle reciproche interferenze tra le nuove tecniche di coltivazione e il metabolismo umano.
Visitabile dal 6 marzo al 14 aprile 2021, zone Covid permettendo, l’esposizione è scandita da un ciclo inedito di sculture dai tratti antropomorfi, che portano i segni di ritmi biologici modificati e di trattamenti fitosanitari, tra molecole di sintesi, sterilità e generi «transessuali nel senso più tecnico e anti-retorico del termine». Ce ne parla Luca Francesconi, che abbiamo raggiunto per un’intervista.
Percettivamente spaesanti, in molti casi inaspettate, spesso curiosamente ibride tra organico e inorganico, le tue opere sono sempre sul filo dell’ironia. Qual è la tua chiave, il tuo metodo, per affrontare e reinterpretare la grande tradizione della scultura?
«Onestamente, credo di affrontare questa questione evitando di pormi in continuità con una determinata tradizione scultorea, soprattutto nei confronti di un certo modo di intendere la materia. L’impiego del bronzo, in modo particolare in questa mostra, dipende esclusivamente dalla possibilità di utilizzare un materiale che sia malleabile e che mi permetta di definire forme e volumi. In altri progetti ricercavo, attraverso gli oggetti che componevano le mie sculture e installazioni, una sorta di campo di confronto per tutti quei significati e valori che i materiali si portano inevitabilmente dietro. In questa occasione, però, i corpi dislocati nello spazio, si spogliano di qualsiasi componente metafisica mostrandosi per quello che sono: forme e volumi dal carattere rustico e in parte rozzo».
Parte della tua ricerca si concentra sulle varie possibilità della rappresentazione antropomorfa. Penso, per esempio, alle figure con testa scambiabile recentemente esposte al MAMbo per la mostra “AGAINandAGAINandAGAINand”. Ora, per la tua quarta personale negli spazi della Galleria Umberto di Marino, presenterai delle opere dai “tratti somatici” ancora più accentuati, iperrealistici in un certo senso. Ci puoi parlare delle tappe e dei motivi di questo passaggio?
«Sicuramente queste nuove forme, questi involucri nei quali si riconoscono in maniera più chiara fattezze umane, nascono principalmente dallo sviluppo di alcune tematiche che ho voluto analizzare con quest’ultimo progetto. Oggi stiamo iniziando ad intravedere, e a studiare, i primi effetti che i trattamenti fitosanitari, impiegati al fine di moltiplicare le rese agricole, stanno avendo sul copro umano. La scoperta degli Interferenti Endocrini (in inglese Endocrine Disruptors) ha definito che queste componenti chimiche hanno un impatto non indifferente sull’equilibrio ormonale nei corpi umani, ponendoci in questo modo in una fase di cambiamento, di trasformazione del genere. Tralasciando qualsiasi istinto a definire un’ulteriore fase di post-umanesimo, i “volumi” realizzati per la nuova mostra tendono a rappresentare questi corpi definibili transessuali, nell’accensione più tecnica del termine».
Spesso hai lavorato sulla sovrapposizione ancestrale, eppure sempre contemporanea, tra il ciclo della natura e il tempo degli uomini. In questo tuo ultimo progetto, mi sembra che il limite tra i due ambiti sia stato definitivamente superato, tra agro-farmaceutica e trattamenti ormonali più o meno consapevoli, tra sovrapproduzione e declino demografico. In che modo la pratica artistica può riuscire a esprimere la complessità di questi argomenti così “tecnici”?
«Sarebbe didascalico credere di poter esaurire uno specifico discorso scientifico, che certamente mi ha colpito e ha accompagnato la mia pratica, o volersi addirittura insinuare tra le pieghe dello stesso per completarlo. Non ritengo il mio lavoro una somma di argomenti e dati esperienziali personali, non siamo nel campo delle idee universali; lo vedrei più come l’alimentazione (dis)continua di una ragnatela, di una costruzione anti-architettonica dal basso, che parta dalla sua stessa complessità, nel mezzo. Un intreccio di pratiche e istituzioni, di citazioni e di amori, di sgretolamenti e ricostruzioni, di proiezioni di problematiche intime e collettive che definiscono e ridefiniscono Luca Francesconi; l’artista».
Lavorare a un progetto o a una mostra, tra zone gialle, rosse, arancioni e lockdown vari, non deve essere semplice ma, forse, per certi versi, può rivelarsi stimolante. Puoi raccontarci la tua esperienza?
«Sicuramente non è mancato il tempo per pensare e ripensare ai lavori, seppur in un’atmosfera diversa, quasi surreale. Questo penso abbia cambiato il nostro approccio, altrimenti ci configureremmo come chi ha continuato a operare meccanicamente in un mondo in cambiamento, anche solo temporaneo. La mostra era in programma per l’estate 2020, dunque è cambiata più e più volte prima di trovare una forma definitiva. Da un lato ha stimolato forse approfondimenti e ripensamenti vari, ma d’altro canto è sempre un salto nel vuoto trovarsi a inaugurare in condizioni così precarie. Provvedimenti e comitati scientifici scavalcano le istituzioni preposte, che si deresponsabilizzano annuendo. Potremmo parlarne per ore, di certo questa situazione genera una certa incertezza mista ad agitazione, ma non resta che adattarsi».