Huma Bhabha (1962, Karachi, Pakistan) si è laureata alla Columbia University in pittura e ha cominciato la sua attività di artista negli anni Novanta, vive nello stato di New York in un ex stazione dei pompieri nel distretto industriale di Poughkeepsie sulle rive dell’Hudson ma ha mantenuto un forte rapporto con il Pakistan, suo paese di origine. Nonostante la sua specializzazione, la scultura è da sempre il suo mezzo espressivo privilegiato, e le sue opere tridimensionali, spiazzanti e visionarie, sono un vero e proprio omaggio all’arte scultorea e ai suoi stili.
I materiali usati sono gli eterogenei e spesso effimeri, scarti che l’artista raccoglie nella strada e nei cantieri, soprattutto legno, polistirolo e sughero, materiali leggeri che sapientemente assemblati e lavorati acquistano una gravitas monumentale ed eroica. Il corpo umano è il grande protagonista dei suoi lavori: un corpo asessuato, ibrido, rappresentato in quella sorta di sospensione temporale che ricorda la statuaria monumentale egizia e gli arcaici kuroi greci così ieratici e distaccati nella loro perfezione formale.
Il rapporto di Huma Bhabha con il mondo classico è quindi certamente molto forte, nonostante i riferimenti culturali nel suo lavoro siano decisamente eterogenei in un sapiente mix di Hi and Low, in cui fa la parte del leone il mondo della fantascienza e in particolare i visionari romanzi di Philip K. Dick, o il cinema body horror di David Cronenberg, le sculture lignee di Costantin Brancusi, i gessi di Auguste Rodin, i corpi filiformi di Giacometti, i combines di Rauschemberg, le maschere tribali africane fino all’estetica cartoon di una serie televisiva di culto come la canadese South Park.
Secondo Bhabha l’arte dovrebbe essere divertente in quel modo un pò grottesco tipico degli horror movie e della science fiction, ma mischiata alla potenza esoterica delle maschere tribali; infatti i volti dei suoi personaggi sono allo stesso tempo sia preistorici, che proiettati verso un robotico futuro, sono la disturbante rappresentazione di una post-umanità sospesa fra tragicità ed eroismo.
Per la prima volta a Roma, l’artista pakistana, presenta nel luminoso ovale della Gagosian Gallery i suoi totem inquietanti fra cui The Orientalist (2007) una imponente fusione in bronzo che ricorda le colossali sculture egizie di Luxor in cui il faraone Amenhotep III (IV SEC. A.C.) è rappresentato seduto. Qui il riferimento alla science fiction è molto chiaro e il personaggio pur nella sua imponenza è un cyborg con il corpo assemblato meccanicamente e con un volto contorto e ghignante come se fosse la rappresentazione plastica di un coacervo di perversioni umane. L’uso del sughero nelle sculture di Huma Bhabha è relativamente recente e grazie a questo materiale facile da intagliare e leggero, l’artista ha realizzato un potente corpus di sculture totemiche di grandi dimensioni. Il sughero è diventato uno dei materiali preferita dall’artista, insieme al polistirolo, in quanto la sua superficie porosa una volta dipinta sembra quasi una pietra erosa dal tempo. Le sue sculture totemiche, Dei o forse demoni o mostri riapparsi dagli abissi del tempo, nonostante il loro aspetto sofferente da sopravvissuti, riescono ancora ad ergersi maestosi come se fossero sculture preistoriche intagliate nella pietra, mantenendo la leggerezza intrinseca del materiale.
I volti di questi delle sculture sono dipinti con delicati colori pastello, rosa, verde e azzurro che contrastano con le volumetrie tozze dei corpi.
Huma Bhabha scandaglia l’umanità e le sue pulsioni con una precisione chirurgica lasciandoci sgomenti davanti alla insostenibile rappresentazione della nostra fragilità e del nostro orgoglio. Le opere, tutte visivamente potentissime, ruvide e ipnotizzanti non sono esplicitamente politiche ma ci mostrano il baratro verso cui la nostra civiltà si sta dirigendo, sono mute presenze che diventano, grazie al potere demiurgico dell’arte, i testimoni silenziosi e ingombranti di quel possibile disastro che forse verrà provocato dal nostro smisurato orgoglio.
Il titolo della mostra “The Company” è ispirato al breve racconto di Jorge Luis Borges “La lotteria di Babilonia” (1941) in cui l’autore immagina una società sopraffatta da un gioco a premi che si estende, si allarga, si modifica e si distorce al punto da determinare l’esistenza dei cittadini stessi. Una geniale distopia in cui un gioco dalle caratteristiche positive diventa non solo obbligatorio ma anche crudelmente punitivo, angosciante e invadente.
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