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I paesaggi interiori di Simone Gori: da Bianco 900 al festival di Radicondoli
Arte contemporanea
In una calda giornata di luglio incontro a Prato, Simone Gori per fare due chiacchiere. Siamo all’indomani dell’inaugurazione del festival “Paesaggi contemporanei” che si svolge a Radicondoli parallelamente a quello del teatro che il regista Massimo Luconi cura ormai da dieci anni. Simone è uno degli artisti invitati insieme ad Antonello Ghezzi e il tema delle nuvole è il filo conduttore della mostra e delle installazioni che gli artisti hanno realizzato nell’antico borgo toscano.
La casa di Simone si trova nel cuore di Prato, in una piazza addormentata e silenziosa, cotta dal sole. Ci siamo visti tre giorni prima a Radicondoli ma il calore con il quale vengo accolta e quello che si riserva ai vecchi amici. Davanti a una tavola imbandita e a un bicchiere di vino, iniziamo subito a parlare del suo lavoro. Le stoviglie che sono disposte sulla tavola sono quasi tutte frutto della sua creatività. Sono però rimasta molto colpita dalla mostra di Radicondoli e a bruciapelo chiedo a Simone cosa rappresentano le nuvole per lui. Mi guarda quasi spaesato, poi come un fiume in piena comincia a raccontare: le nuvole sono un mondo in movimento, rappresentano il tempo che passa, anche se tutto sembra quasi immobile; il cielo è uno specchio della realtà, ma che ci consente di percepirla da un diverso punto di vista. Inizia a parlare e senza che io faccia quasi domande mi dice delle sue opere, delle mostre che ha fatto, del suo essere artista…
Le nuvole e il cielo sono, infatti, una delle cifre stilistiche che ha segnato il lavoro di Simone negli ultimi anni. Era il 2019 quando vidi la prima opera con questo tema, Il creatore di nuvole, un “lastricato” di piastrelle di specchio – con al centro serigrafata l’immagine dell’artista seduto per terra, con le gambe stese e appoggiato sulle braccia. Siamo in uno degli ambienti nel parco della Fattoria di Celle e le pareti dipinte della stanza racchiudono una porzione di un cielo mutevole e variegato che mette in relazione il pavimento e il soffitto creando una connessione tra due mondi differenti legati dal sottile filo dell’anima.
Somnium mundi, del 2021 – esposta sulla torre dell’acqua al festival Chiantissimo a San Casciano Val di Pesa – parte dallo stesso presupposto ma questa volta si tratta della sagoma di due corpi addormentati in acciaio riflettente adagiati su un meraviglioso prato verde. Sono due sognatori, il cielo “scorre” sopra di loro e ci aiuta a percepire il paesaggio da un’altra dimensione. Si tratta, quindi, di un mondo onirico, legato a un personale ricordo infantile quando, chiese al padre: “Dormi?” il padre disse: “Il babbo non dorme, riflette!” Questa risposta calza perfettamente con la frase di Ennio Flaiano, “Il sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole”, che Simone Gori ha posto a corollario del lavoro.
La più recente delle sue opere che hanno a che fare con le nuvole, senza titolo del 2021, è quella installata sulla terrazza panoramica del comune di Radicondoli. Qui il “lastricato” di piastrelle pare essere esploso e la pavimentazione sembra svolgersi all’infinito ma il nucleo centrale reca l’immagine serigrafata di due bambine prese dall’alto intente a disegnare il cielo, con dei gessetti bianchi e azzurri. L’ispirazione l’artista la trae dal Piccolo Principe di Saint-Exupéry dove l’autore focalizza la difficoltà degli adulti a comprendere i disegni dei bambini e il loro volerli razionalizzare svuotandoli così del vivo senso dell’immaginazione; l’opera diventa quindi un invito a lasciarsi andare, a navigare liberi dando spazio alla fantasia.
Alle parete della stanza dove stiamo pranzando sono appese tre piccole opere quadrate a rilievo (una gialla, una rossa e una blu), una più grande rossa è situata nella stanza adiacente, una gialla è esposta alla mostra di Radicondoli. Sono opere piuttosto particolari, schiumose, diverse da quelle di cui abbiamo parlato fino a quel momento quindi chiedo a Simone come è arrivato a tali soluzioni e mi racconta che è sempre alla ricerca di nuovi materiali, che ama sperimentare e che per queste opere ha lavorato con il poliuretano espanso sul quale è intervenuto “scarnificando”, corrodendo la materia e rendendola irregolare così da sembrare un suolo lunare. Le opere fanno parte della serie “Primitivismi cromatici” iniziata nel 2020, sono molto materiche e fuoriescono dal limes della cornice, monocrome – ha usato i colori primari – ma che virano al cambiare della luce, sembrano in continuo movimento e l’occhio può navigare liberamente in questo mondo sconfinato. Nel lavorare tale materiale c’è una componente di “casualità” molto elevata poiché è piuttosto duro e difficilmente gestibile.
Il percorso artistico di Simone Gori è cominciato dopo una laurea in architettura e si è sviluppato in modo molto poliedrico. L’opera centrale della sua prima mostra personale, Bianco 900 del 2013, tenutasi nello spazio Warehouse a Prato è entrata a far parte della collezione Maeght e nel 2019 è stata esposta alla mostra L’esprit d’un collection a Saint Paul-de-Vence. Si tratta un lavoro di grande impatto, due corpi coricati – uno maschile e uno femminile –sono coperti da un telo. Se ne colgono le sagome e si intuisce che la posizione è molto intima e rilassata. Il bianco delle garze gessate è il colore della purezza e dell’inderteminatezza; e questo telo si presenta come una nuova pelle liberando i corpi dalle vecchie e profonde cicatrici che hanno segnato il Novecento, lasciando spazio a una riflessione sulla propria identità.
Il corpo umano e in particolare il corpo dell’artista è protagonista anche di un’opera-performance, Ego, tenutasi nel 2015 a La Corte a Firenze. Il piccolo spazio della galleria era occupato da dei pancali neri su cui erano incollate delle foto di Simone (l’artista) nell’atto di sorreggere sulle spalle un peso. Una camera d’aria (l’ego) di fibra poliammide gonfiandosi fuoriusciva da una scatola (il corpo) posta al centro e sottraeva spazio vitale al pubblico che piano piano era costretto a uscire dalla stanza. L’opera è dunque una metafora e rappresenta una riflessione sull’ego di chi fa arte e più in generale di chi vive nell’epoca in cui la possibilità di esprimersi e di autopromuoversi appare semplice e alla portata di tutti grazie ai social media. L’artista ha il compito dunque di sorreggere con grande sforzo questo debordare dell’ego di cui non aveva previsto né l’ingombro né il peso e comincia a vacillare.
Le opere di Simone Gori, che a prima vista appaiono, molto diverse tra loro, sono invece tutte quante legate da un sottile fil rouge. Ogni lavoro ha perlomeno due livelli di lettura, uno “facile” e immediato, uno più recondito e profondo. Ogni elemento della sua produzione è nato e sviluppato in seno a un contesto molto personale nel quale ricordi, memorie, episodi dell’infanzia e vicende familiari si amalgamano dando vita a qualcosa che affonda le proprie radici nell’intimo dell’artista. Simone mi dice che nonostante abbia vissuto sin da piccolo il crogiuolo artistico sviluppatosi in famiglia sente che, a differenza del padre, dello zio e del nonno, non riesce ad avere quell’immediatezza dello sguardo su un’opera che invece hanno loro e che spesso ancor oggi lo spiazzano per la lucidità e la puntualità di lettura. Lui però fa l’artista e il bagaglio culturale assunto in famiglia lo mette a frutto in altro modo.
Sono passate più di tre ore, Frida, la canina dorme stesa sul pavimento, la bottiglia di vino è finita, la piazza è sempre infuocata. Sono contenta di aver fatto questa chiacchierata informale con Simone, un artista, a mio avviso, mai banale, molto lucido e con una componente ironica di rara consuetudine.