Attraverso quindici opere, spalmate nell’arco temporale che va dal 1964 al 1987, da Gagosian Roma (fino alla fine di aprile) sono raccontati ventitré anni della lunga carriera di Richard Artschwager (1923 – 2013). Iniziata nei primi anni Cinquanta, come fabbricatore di mobili, per la precisione come ebanista, soprattutto di desk per uffici; proseguita nell’universo-sistema dell’arte – dopo il disastroso incendio che distrusse la sua bottega alla fine della decade – non senza poche difficoltà. In parte precursore, in parte visionario, Richard Artschwager, nonostante la sua prima mostra risalga al 1959 nella Art Directions Gallery di New York, ha dovuto, infatti, faticare un bel po’ per farsi accogliere nell’Olimpo degli artisti e nelle grazie delle gallerie e dei collezionisti. Un personaggio anomalo sia per la sua formazione, da studi di chimica, biologia e matematica, sia per la sua pratica artistica di non semplice classificazione e collocazione, addirittura muovendo i primi passi nell’arte informale studiando con Amedée Ozenfant, tra i pionieri dell’astrattismo.
Ben presto procede con la realizzazione di sculture, utilizzando gli scarti di materiali industriali, per passare poi alla pittura, al disegno, alle installazioni, proponendo da sempre opere “ad un passo dalla normalità della vita quotidiana”. Già nel 2012, poco prima della sua scomparsa, aveva esposto per la prima volta a Roma nella Galleria Gagosian, proponendo, allora, sette grandi sculture, per lo più diverse declinazioni della scultura pianoforte. Mentre la corrente esposizione, col periodo e le opere considerati, con una grazia infinita, riesce a tracciare e fissare alcuni punti salienti della produzione dell’artista, descrivendo in modo puntuale non solo il suo raggio di azione ma anche, e soprattutto, la sua forte sperimentazione e curiosità verso forme espressive e materiali nuovi e inediti. Sin dal primo lavoro installato nella hall della galleria che, ai più, passa inosservato.
Untitled 1967/1984, è l’immediata dichiarazione di intenti non solo del percorso espositivo, ma del concetto di base dell’intera ricerca artistica di Richard Artschwager, quello di disturbare la percezione visiva dello spazio e rendere insoliti gli oggetti di uso comune che lo animano, mediante materiali poveri ma di grande diffusione. Così abbiamo una scultura (?) installata a oltre tre metri di altezza, in un angolo, realizzata in formica, materiale industriale e commerciale solitamente destinato a ricoprire le superfici di mobili di largo consumo, che rappresenta un altoparlante (?), comunque un oggetto “inutile”, affascinante e magnetico. Fondendo e mostrando, già in questo primo elemento scultoreo, l’anima della Pop Art, della Minimal Art e della Conceptual Art (movimenti cui ha strizzato l’occhio ma che non ha mai completamente abbracciato), ma altresì pittura e scultura, attestando quella chiara trasversalità artistica che lo contraddistingue da sempre.
Mentre la sala ovale accoglie prevalentemente quadri di medie dimensioni ove a dominare è la tinta grigia, realizzati anche questi su un materiale inusuale di cui Richard Artschwager non solo ne ha colto la novità ma anche tutte le potenzialità: il celotex. Traendo ispirazione da fotografie, su questa superficie dipinge paesaggi, interni domestici, architetture, meravigliosamente integrando e assecondando, mai camuffando o nascondendo, le imperfezioni e la foggia stessa del materiale all’interno della pittura. Perché teneva sempre a rendere evidente il campo di azione, quello dell’arte e non della realtà.
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