Luca Trevisani (Verona, 1979) l’ha voluta bianca, ma che più bianca no si può. Una Pinksummer eterea, quella che vorresti ad illustrare la definizione di white cube. In quest’atmosfera rarefatta la nuova personale “In Bocca” non è stata allestita, si è praticamente materializzata.
Si parla di cibo. Argomento sempre in voga quanto insidioso nella nazione della dieta mediterranea, degli chef stellati e del potere mediatico – cresciuto esponenzialmente – di cooking show d’ogni format possibile. Il cibo è fenomeno sociale; trend fomentato dalle contingenze (vedi alla voce pandemia) o da scelte televisive che fondamentalmente lo relegano ad italica forma d’intrattenimento passivo (detto tra noi: c’è chi si sollazza a guardare programmi di cucina con ricette che non replicherà mai, e chi mente). L’unica ricetta qui seguita da Trevisani consiste nel provare a riallinearlo al centro della sua sfera politica/sociale d’appartenenza. In una dimensione del quotidiano decisamente più attiva.
Abbiamo sempre un conto aperto col white cube. Che principalmente contiene tre teche, a loro volta contenenti residuati essiccati di zucche, avocado, melanzane, fichi d’india e via discorrendo. Progetto e processo ce li ha un po’ spiegati Trevisani. Artista curioso di suo (approfondiremo due paragrafi più avanti), cultore degli stimoli esterni, delle sperimentazioni e non meno delle evoluzioni non previste, ma possibili.
Tant’è che tutto ha inizio ormai più di un anno fa, ed è «Nato come una specie di gioco», dalla voglia ancestrale di «Provare a fare dei vasi con vari ortaggi». Di lì il gioco a “impatto zero” ha preso piede, coinvolgendo in maniera molto più ampia il valore plastico dei materiali. Che si fanno apprezzare quindi per il loro valore scultoreo, ma sono soprattutto fossili nell’idea e nelle parole di Trevisani, esposti con un certo rigore in teche pensate sempre dallo stesso Trevisani.
Fossili, che manifestano il loro passato facendo lo sgambetto alla contemporaneità; dei quali possiamo illustrarvi per filo e per segno le texture pesanti, i pieni e i vuoti. Così come i fori che raccontano di una vita precedente, del contatto umano e dell’esigenza di sfruttare quei prodotti della terra. Prodotti sic et simpliciter in cambio di destinazione d’uso; passati dal riempire la pancia ad artista e/o suoi collaboratori – un punto fermo del progetto, come ci conferma l’artista – ad essere categorici protagonisti di una personale. Possiamo mettere l’accento su tutto quello che volete, e che richiede un approccio affettuosamente mainstream al contemporaneo. Ma possiamo anche far di meglio.
E il nostro meglio lo faremo spostando l’interesse, dal dato oggettivo al residuato alimentare come elemento endemico alla nostra società. Marginalmente fondamentale a raccontare parte della società stessa, a parlare con l’individualità del reperto ad individui ignari del suo valore, compost a parte. Lo facciamo quindi spostando di peso il discorso da qualcosa che nasce con la consapevolezza di sé, come la scultura, a qualcosa che ha perso la propria identità per assumerne un’altra, indiretto interprete della società che indirettamente l’ha prodotto. Un fossile. Testimonianza passata consegnata al presente; preziosa, da mettere sotto teca e su piccoli piedistalli creati dall’artista, fatti dorare in foglia oro 24 carati.
L’oro non è un caso, e non avrebbe potuto essere diversamente conoscendo Trevisani. Solo che noi c’eravamo fatti da subito un’idea diversa da quella dell’artista. Stringendo parecchio le cose stanno così: l’oro non ossida, resiste al tempo, quindi ben si accorda alla stessa linea di “resistenza al tempo” del fossile.
Quella la versione ufficiale. La nostra invece, più ufficiosa oltre che terra terra, solletica il comune senso della preziosità. Già un qualcosa sotto teca è prezioso di per sé. Qualcosa sotto teca e su raffinati piedistalli in oro impone al nostro cervello una certa riverenza verso ciò che stiamo osservando. È la logica del cliché; che al tempo stesso stimola quella del cortocircuito percettivo, quando “alto valore” e “basso valore” condividono lo stesso spazio, anzi è il primo ad essere subordinato al secondo.
Per finire quindi chi scrive piazza qui un bel disclaimer, consapevole che quanto sta per asserire probabilmente urterà la sensibilità dell’establishment critico. Tuttavia è convinto che confezionando di tutto punto uno scarto di sua pertinenza Trevisani sia un figlio di Manzoni, fermatosi prima della merda d’artista.
Fin qui le abbiamo omesse, ma le pareti sono l’altra colonna portante di questa personale. Appesi ci sono dei “paesaggi” su carte imbevute dei liquidi recuperati da frutta e ortaggi. Regola numero uno è non catalogarle come pittura perché sono sculture, «Non faccio pittura, non mi appartiene» dice Trevisani; numero due lasciarsi trasportare da quell’indeterminatezza made in Trevisani, dal procedere senza conoscere in anteprima l’esito dei suoi tentativi. Dal suo dire «Imparo dai processi», ma con la consapevolezza che non tutto possa far brodo, e raggiungere un risultato soddisfacente possa prevedere che «Per fare una carta ce ne sono volute sei». E forse ce n’è una terza, guardare ai cambiamenti come ad un’opportunità per strutturare nuovi punti di vista. Apprezzando quindi che una base lasciata sui toni del grigio possa, in una notte, virare all’intenso rosso bruno che troviamo in mostra.
È su quelle basi che Trevisani ha impostato la prospettiva vagamente “cubista” dei suoi “paesaggi”, atmosfere di agrumeti ottenuti distribuendo fette di svariati agrumi; caricando interamente uno spazio segnato dalla loro reazione acida, lasciandone la cromaticità in una traccia più o meno comprensibile. Sono carte molto attraenti, esplosive nel loro staccare con violenza sul bianco. Gusto di un horror vacui contaminato dalla curiosità (riprendendo le fila del discorso iniziato un paio di paragrafi sopra) dell’artista, che non avrebbe potuto rinunciare a vedere l’effetto rilasciato da un limone in una qualsiasi area della carta.
Sono espressione di un fondamentalismo decorativo, che nasce quando è la percezione di “decorativo” la distorsione di fondo più comune. Come ci spiega Trevisani, «È capitato che in alcuni lavori precedenti mi dicessero “sei troppo decorativo”, ma che senso ha?», e continua «Un fiore ad esempio non è decorativo, è bello perché deve attirare gli insetti». E, smartphone alla mano, mostrandoci gli scatti del work in progress racconta «Avevo iniziato mettendo pochi elementi, ma ho capito che non mi potevo fermare lì». Certo, per la curiosità di sperimentare che abbiamo sottolineato prima; ma anche perché quel minimalismo – «Un po’ fighetto» come da coerente definizione dell’artista stesso – sensato per le teche-reliquiari non avrebbe avuto ragion d’essere in quel contesto paesaggistico.
Medita caro establishment critico – e più genericamente artistico – contemporaneo, medita, ché il ragionamento di Trevisani non fa una grinza: «La natura non è decorativa, non diresti mica ad una giungla “quanto sei decorativa”».
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