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Il limite della stasi: Bill Viola a Roma
Arte contemporanea
di Luigi Capano
Dietro un’impenetrabile veranda verde pino, Donna Letizia Bonaparte è intenta seguire con gli occhi il time-lapse del traffico perpetuo che, confluendo caoticamente in Piazza Venezia, si immette con fragore nella sottostante Via del Corso. D’improvviso la nobildonna volge il capo alla propria destra, attratta dallo slow-motion dei nostri passi che varcano il grande portone del palazzo seicentesco, progettato dall’architetto De Rossi. Ed ecco che, d’acchito, la “realtà aumentata” si dissolve nella ferialità del quotidiano senza soluzione di continuità. Questa nostra fantasia ucronica ci porta audacemente in medias res, ovvero nel cuore della mostra di Bill Viola (New York, 1951) a Palazzo Bonaparte, finalmente aperto al pubblico dopo quasi due anni di pausa forzata.
L’artista statunitense di origine italiana, tra i massimi esponenti della videoarte (un linguaggio artistico nato negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni sessanta), ha tessuto un rapporto di lunga frequentazione con il nostro paese: dalla giovanile esperienza lavorativa a Firenze come direttore tecnico di art/tapes/22, uno dei primi studi di produzione di videoarte in Europa, alle partecipazioni alla Biennale di Venezia, alle grandi mostre personali al Palazzo delle Esposizioni di Roma e a Palazzo Strozzi.
Nelle buie sale dell’antico palazzo romano si accende un percorso antologico diacronico – dagli anni settanta fino ad oggi – che compendia, con agile maestria, il coinvolgente lavoro del celebre videoartista. La cui poetica è solcata da una riconoscibile quanto inconsueta vena mistica che attinge variamente alla philosophia perennis dello storico dell’arte Ananda Coomaraswamy, alla metafisica della luce del filosofo e sufi Ibn Arabi, all’iconografia cristiana rinascimentale, ai ricorrenti viaggi in India e in Giappone. Ci fermiamo pensosi dinanzi a The Greeting, una sequenza video proiettata su uno schermo installato a parete e ispirata alla Visitazione del Pontormo. In una scena da set cinematografico tre donne si incontrano, dialogano, si scambiano un saluto informale. Con l’impiego sapiente dello slow motion, l’ordinaria cinetica dei gesti è trasfigurata fino al limite estremo della stasi.
Assistiamo ad una ripresa di 45 secondi spalmata su un intervallo di oltre 10 minuti, chiarisce, nel testo del catalogo, Kira Perov, curatrice della mostra e moglie dell’artista. Il quale, adducendo una parossistica dilatazione temporale, sembra voler giocare con i nervi del riguardante in un’ordalia della lentezza dove la posta in gioco è altissima: il passaggio catartico, palingenetico oltre la soglia illusionistica del percettibile. Questo cruciale confine ontologico, sempre presente nelle opere di Bill Viola, è variamente alluso da uno specchio d’acqua (The reflecting pool), da una tempesta di polvere (Ancestors), da microscopici mutamenti di luce (Unspoken), da un paesaggio subacqueo (Ascension), da un muro d’acqua (Three women), dall’alveo di un fiume (water portraits series), dall’assalto violento dei quattro elementi (Martyrs series), dall’attraversamento del bosco (Study for the path).
è vero che lo storytelling (parola che odio ma che in questo caso rende) ci piace tanto, ma sarebbe opportuno fare attenzione a quello che si scrive senza farsi prendere la mano dal voler per forza usare paroloni e dare notizie come sentenze, soprattutto quando la storia dell’arte afferma ben altro, ovvero: vedi nascita della videoarte. con rispetto. daniela
D’accordo con il commento precedente di Daniela