Storica e critica dell’arte, scrive da vent’anni per le pagine culturali de La Repubblica, Robinson, il Venerdì. È membro del Comitato Scientifico di Villa dei Cedri di Bellinzona (CH), consulente del Monte Verità di Ascona (CH) ed è stata collaboratrice dal 2001 al 2015 del Museo di Mendrisio (CH). Con Lea Vergine ha scritto L’arte non è faccenda di persone perbene edito da Rizzoli nel 2016. Ha curato mostre per la Gamec di Bergamo, il Museo Novecento di Firenze, la Fondazione Querini Stampalia di Venezia, il Museo Archeologico Regionale di Aosta, la Pinacothèque di Parigi, Villa Panza di Varese. Per il Museo Man di Nuoro ha firmato le esposizioni “Giacometti e l’arcaico” e “L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944”. E oggi torna nel museo sardo in qualità di suo nuovo direttore. Ecco la nostra intervista a Chiara Gatti.
Come mai hai deciso di partecipare alla selezione per la direzione del Museo?
«Conoscevo bene la storia del MAN fin dalla sua nascita e ho avuto occasione di curare due mostre storiche, una dedicata a Giacometti e una alle Futuriste italiane, fortissimamente volute dal direttore di allora, Lorenzo Giusti. Sono state due esperienze stupende e gratificanti e, sin da subito, ho sognato di poterci tornare. Ma non immaginavo da direttore!».
Quali sono i punti di forza, a tuo avviso, del Museo?
«La sua doppia vocazione, divisa fra moderno e contemporaneo. Il MAN ha vissuto sempre armonizzando queste due anime che, in certi casi, si sono fuse. Come nella mostra in corso dedicata a Carlo Levi che contempla un progetto speciale di residenza produttiva di Vittoria Soddu realizzato con la Fondazione Sardegna Film Commission. L’alta qualità di progetti orchestrati su questo doppio binario ha conferito al MAN un’identità precisa e lo ha reso un punto di riferimento per la Sardegna, riconosciuto in tutta Italia».
Cosa secondo te ha convinto maggiormente la commissione che alla fine ti ha selezionato come direttrice?
«Il mio entusiasmo. O forse il mio profilo versatile, che spazia dalla formazione scientifica alla comunicazione, maturata nel corso del mio lavoro come critico per i giornali. Concentrarsi sulla ricerca e, insieme, sulla divulgazione può aiutare un museo a essere professionale, ma anche friendly».
Hai la responsabilità di uno spazio storicamente molto importante. Quale situazione trovi al tuo arrivo?
«Sono arrivata il giorno dell’inaugurazione di Carlo Levi, mostra curata da Giorgina Bertolino e varata dal direttore precedente Luigi Fassi. Un progetto inedito e serissimo a cui il team del museo ha lavorato con uno spirito di squadra straordinario che io, da ex pallavolista, credo sia il valore aggiunto per l’ottima riuscita di ogni progetto».
Qual è, a tuo avviso, la mission un museo civico di arte contemporanea?
«Di adesione ai fatti e alla storia. Di registrazione e archiviazione del nostro tempo attraverso la lettura che gli artisti possono dare dell’epoca di cui sono necessariamente protagonisti e interpreti. Smuovere le coscienze offrendo temi di riflessione è la missione di un museo che non si raggomitoli su se stesso, ma che agisca come antenna di un sentire comune. Senza fare cronaca o didascalia. Ma offrendo una testimonianza filtrata dall’arte, sublimando il quotidiano e le sue tragedie in una dimensione di senso assoluto».
Quale centro civico d’arte contemporanea italiano trovi più interessante per la programmazione espositiva e l’engagement del pubblico?
«La GAMeC di Bergamo, con cui ho collaborato in occasione della mostra dedicata a Regina Cassolo l’anno scorso, segue una linea lucida di ricerca, conducendo un’indagine sui nuovi linguaggi del contemporaneo che abbraccia la sperimentazione e insieme la missione civile. Lo abbiamo visto in piena pandemia, quando davanti al picco drammatico dei morti per Covid in città, il museo ha cercato disperatamente di muoversi come un faro nella tempesta, inventando per esempio una sua emittente radio che comunicasse con la comunità durante il lockdown e guadagnandosi così anche una menzione speciale dell’Unesco».
Quale budget annuale avrai a disposizione e a quali strategie pensi per incrementarlo?
«Stiamo lavorando ora al bilancio, ma il sostegno della Provincia, della Regione e della Fondazione di Sardegna consentono al MAN di affrontare gli impegni per mostre importanti e tutte le attività collaterali. Guardiamo con interesse a possibili gemellaggi per mostre condivise. Il mio sogno sarebbe quello di produrre all’interno del museo mostre che possano essere offerte, in seconda battuta, ad altri istituti. Il museo come produttore di progetti inediti, ideati dal suo team e fatti circolare».
Quali sono gli attuali numeri del pubblico del MAN e come pensi di coinvolgerlo per aumentare il numero dei visitatori a partire da quelli del territorio?
«La mostra di Carlo Levi sta registrando una media di 50 visitatori al giorno e oltre 200 nel fine settimana. Calcolando che non è alta stagione per la Sardegna, il risultato è ottimo e, da qui a giugno, crescerà molto, complici le feste e le ferie. Offriamo visite guidate gratuite tutte le domeniche, molto frequentate, e i laboratori per i bambini sono già sold out».
Come pensi di coinvolgere gli stakeholder locali (artisti, imprese, associazioni, fondazioni, curatori, ecc.)?
«Credo da sempre nei gemellaggi, nei programmi condivisi, nei progetti concepiti insieme. Per la prossima mostra “Sensorama” coinvolgeremo l’Università degli studi di Sassari e il suo dipartimento di scienze biomediche per una indagine sui meccanismi della vista nell’osservazione delle immagini. Per il workshop di arte e architettura lavoreremo con la Facoltà di Architettura di Cagliari. Ci saranno open call per artisti locali che saranno coordinati da curatori attivi sul territorio. Non escludo che, per l’estate, si possa ragionare con federalberghi sulla possibilità di promuovere insieme turismo e cultura».
Che tipo di impronta intendi dare al museo sotto la tua direzione?
«Dinamica e coinvolgente. Penso a un collettore di energie attivo su un territorio chiamato a partecipare alle attività in programma. Sia che si tratti di iniziative rivolte al locale, compresi i nuovi laboratori per adulti, sia per le proposte storiche che punteranno sui maestri internazionali per riscoprire la vocazione del MAN per i giganti delle avanguardie. Vorrei tutte le porte aperte, una biblioteca da consultare liberamente, fiori all’ingresso come nei musei americani, visite guidate gratuite, un nuovo bookshop e un’accoglienza calorosa complice la gentilezza di un personale che ama da anni il museo per cui lavora».
Come pensi di valorizzare la collezione?
«Con mostre ricorrenti e un catalogo della collezione cui stiamo mettendo mano proprio in questi giorni. Abbiamo appena festeggiato l’ingresso nelle nostre raccolte di un’opera fondamentale di Mario Sironi, La madre che cuce del 1905, acquisita al termine della grande antologica che il Museo del Novecento di Milano ha riservato a questo maestro. La presenteremo ufficialmente in autunno insieme ad altri importanti comodati, di Maria Lai e Jorge Eielson. Oltre a un capolavoro di Costantino Nivola ora in restauro e alla donazione di un’opera site specific di Giovanni Campus».
Su quali linee è basato il tuo programma?
«Sul rispetto dell’identità del MAN. Passato e presente che si alternino e si diano la mano. Mostri sacri del secolo scorso ed emergenti in grado di confrontarsi con loro. Come diceva il conte Panza di Biumo “se l’opera di un contemporaneo posta accanto a un pezzo antico sostiene il dialogo, significa che la qualità è la stessa”. Andiamo a caccia della qualità che tiene. E di un dialogo virtuoso. Nella mostra dell’estate avremo Magritte accanto a Peter Kogler…».
Un sogno nel cassetto da realizzare durante la tua direzione?
«Aprire la nuova sede in piazza Satta. I lavori sono fermi da anni, ma stiamo accelerando. L’affaccio sulla piazza darà respiro e visibilità al museo e avremo tutto lo spazio necessario per esporre anche la collezione e inaugurare un caffè letterario. Oltre a una terrazza che affaccia sulla città e che ospiterà lezioni, conferenze e, perché no, aperitivi a tema. Con prodotti locali. Di cui vado pazza».
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