Un cartello immobiliare con la scritta “In vendita. Immobile eccezionale” è stato collocato sulla facciata del Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC) della città di Milano, di proprietà del Comune. Nel 1954, l’edificio fu la prima architettura in Italia espressamente concepita per ospitare l’arte contemporanea. Ma bisogna chiarire agli ignari passanti – anche a quelli diretti al parco tematico dedicato al Natale installato nei Giardini Pubblici Indro Montanelli proprio di fronte al museo –, che non si tratta di un’ambiziosa operazione immobiliare che mette in pericolo il patrimonio pubblico, ma di un’opera d’arte dell’argentino Leandro Erlich, abituato a creare giochi di illusioni con le sue produzioni artistiche, come ha recentemente fatto nella sua mostra Oltre la soglia, avvenuta nel Palazzo Reale di questa stessa città. La sua opera El cartel apre la strada alla mostra in Argentina. Quel che la notte racconta al giorno fino all’11 febbraio 2024, una ricognizione dell’arte contemporanea argentina dell’ultimo mezzo secolo, con importanti opere di una ventina di artisti. «C’è un atto di ironia che gioca con l’idea che il patrimonio culturale sia al servizio del mercato immobiliare e che le cose si trasformino. L’idea che un simile spazio culturale possa andare perduto da un giorno all’altro è un atto di violenza», dice Leandro Erlich (1973), l’artista delle illusioni, che prende proprio l’architettura quotidiana come fattore scatenante per il suo lavoro.
Ironia e citazione sono le tre forme di violenza a cui i curatori, Diego Sileo – direttore del PAC- e Andrés Duprat – direttore del Museo Nazionale di Belle Arti di Buenos Aires – hanno fatto ricorso per tessere il percorso della mostra. Non sembra fuori luogo usare il tema della violenza per raccontare la storia di un Paese che si trova letteralmente alla fine del mondo, che ha avuto una delle dittature militari più sanguinose (1976-1983) dell’America Latina, con sparizioni e sequestri di minori, e che ha subito nel 2001 una delle più grandi crisi economiche e sociali a livello mondiale.
«Da sette anni dedichiamo una mostra annuale a un Paese extraeuropeo, per conoscerlo attraverso gli occhi degli artisti. Non è un approccio geografico, etnografico o antropologico ma è uno sguardo politico sulla cultura e la società di quel Paese, sempre attraverso l’arte contemporanea. Abbiamo iniziato con la Cina, abbiamo continuato con il Giappone, anche con il Brasile e ora è la volta dell’Argentina. È un’occasione per presentare e promuovere la loro cultura», spiega il direttore del PAC, centro espositivo che accoglie 50.000 visitatori l’anno e si trova accanto al Museo di Arte Moderna, di fronte al Museo di Storia Naturale, vicino al Planetario e a meno di un chilometro dal Duomo, il gioiello più grande di questa città.
«La mostra non ha la pretesa di rendere conto di tutta l’arte argentina. Sarebbe impossibile», aggiunge Andrés Duprat, direttore del museo che ospita la più grande e importante collezione di arte argentina a Buenos Aires. «Non è una mostra storica ma è un’ottima rappresentazione dell’arte argentina contemporanea, con un focus su produzioni che affrontano l’idea di violenza, in alcuni casi in modo più sottile e in altri, molto più esplicito», aggiunge il curatore, anche architetto e sceneggiatore.
All’ingresso di Argentina. Quel che la notte racconta al giorno sono collocate quattro opere di Lucio Fontana, «un artista chiave che articola entrambe le scene», suggerisce il curatore argentino. Tre disegni realizzati a Buenos Aires mostrano come il padre dello Spazialismo abbia cercato di incorporare la terza dimensione nella superficie pittorica. Insieme a questo gruppo, un dipinto realizzato dall’altra parte dell’oceano, mostra ciò che gli avrebbe dato notorietà: le tele con tagli. «È stato un gioco da ragazzi posizionarlo all’inizio della via», dice Duprat. Entrambe le nazioni riconoscono come “proprio” l’artista nato nella città argentina di Rosario nel 1899 e morto a Comabbio nel 1968. Uno dei pezzi forti è Western and Christian Civilization, un’opera iconica di León Ferrari (1920-2013) che mostra la figura di Cristo crocifisso su un aereo dell’aeronautica americana e che fu censurata alla sua prima mostra negli anni ’60. Considerato un riferimento inevitabile, Ferrari, vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, non si stancava mai di denunciare nelle sue opere il rapporto tra religione, politica e violenza nella cultura occidentale. Un’altra pietra miliare della mostra è la documentazione fotografica e audiovisiva di un’azione effimera realizzata nel 1983 dall’artista pionieristica Marta Minujín (1943). L’iconico Partenone dei libri proibiti, che l’artista avrebbe replicato più di tre decenni dopo alla documenta 2017 di Kassel, consisteva in una monumentale struttura in ferro che emulava il tempio greco, ricoperta da migliaia di copie di libri che erano stati banditi durante l’ultima dittatura militare.
In un posto di rilievo nella sala principale, accanto alle finestre, e su una lunghezza di 35 metri, l’artista Eduaro Basualdo presenta un’immensa massa nera e informe, che simula il catrame nero e suggerisce una catastrofe di corpi schiacciati. «Tutto il mio lavoro parla di qualcosa di tanto aneddotico quanto esistenziale, come una catastrofe. Una forza che va oltre la decisione, che si tratti dell’eruzione di un vulcano o di un genocidio: l’essere umano è intrappolato in una scala di movimenti», dice Basualdo riguardo alla sua installazione site-specific.
La mostra presenta le opere di Mariana Bellotto, Adriana Bustos, Matías Duville, Ana Gallardo, Alberto Greco (1931-1965), Jorge Macchi, Liliana Maresca (1951-1994), Cristina Piffer, Liliana Porter, Miguel Rothschild, Adrián Villar Rojas, Nicolás Robbio, Graciela Sacco (1956-2017), Alessandra Sanguinetti, Tomás Saraceno, Mariela Scafati e Juan Sorrentino; la selezione mette in luce le molteplici forme espressive di un Paese che per anni è stato la principale meta delle grandi migrazioni europee.
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