C’è un’attesa palpabile nella piazza davanti al Maxxi, prima dell’incontro con Marina Abramovic in conversazione con Hou Hanru. Marina è una delle poche artiste che si può paragonare ad una star del cinema e il pubblico ne avverte il magnetismo. Questa volta la sua presenza a Roma è determinata dalla sua partecipazione alla mostra “Più grande di me. Voci eroiche dalla ex Jugoslavia”: da molte settimane l’incontro in presenza è sold out ma le persone possono assistere in streaming.
Alle 21 in punto sale sul palco una Giovanna Melandri sorridente, che ringrazia Marina di aver accettato l’invito, e dopo una manciata di secondi entra l’artista, con un abito total black. È radiosa e generosa, racconta il suo amore per l’Italia, il Paese che ha accolto le sue prime performance fin da giovanissima, quando veniva ospitata negli appartamenti di altri artisti come Mario e Marisa Merz o Luigi Ontani. «Allora la performance non era considerata arte: ci sono voluti 50 anni per raggiungere questo risultato», spiega Marina, e ricorda le sue prime azioni nel nostro Paese, tra le quali spicca Rhythm 0, realizzata allo Studio Morra di Napoli nel 1974 e documentata nelle sale del Maxxi. Ma prima di concentrarsi sull’azione napoletana, Hanru le chiede di approfondire il suo rapporto con il performer Ulay, suo compagno di vita e di lavoro per più di dieci anni. «Ho incontrato Ulay nel 1976 in un ristorante ad Amsterdam, e ho scoperto che eravamo nati lo stesso giorno, il 30 novembre», racconta. «Siamo stati 12 anni insieme, giravamo l’Europa in camper. Eravamo giovani e abbiamo avuto una relazione molto intensa, che abbiamo deciso di concludere nel 1988 sulla Muraglia Cinese: mi ricordo che un amico americano mi disse: non gli potevi semplicemente telefonare?». Dopo essersi lasciati, si rivedono dopo 22 anni, nel 2010, al MoMA di New York, durante la mostra di Marina “The artist is present”. «Io stessa avevo stabilito che le persone che sedevano davanti a me non potevano parlare né toccarmi ma solo guardarmi negli occhi. Ma quando ho avuto davanti il volto di Ulay l’ho toccato: era stato l’uomo della mia vita e non potevo resistere».
Dopo questo affondo sulla vita personale, la conversazione si sposta sul significato del lavoro di Marina. «La performance si sovrappone alla vita, per questo non ho mai avuto uno studio, anche perché non amo la routine. La mia arte è un’esperienza energetica, una sorta di conoscenza profonda del proprio corpo, come gli orientali: sono nata nei Balcani, un ponte tra oriente e occidente, ma i miei interessi spaziano verso le culture di altri popoli, come gli aborigeni e i tibetani».
Marina si illumina, entra nel cuore del discorso. «Il performer entra in uno stato di trance, si sente come se fosse nell’occhio di un tornado: possiede una calma interiore perfetta ma tutto intorno le energie si scatenano». Qual è il metodo Abramovic per raggiungere questa condizione? «Ci sono molti esercizi ma uno dei più semplici si può fare a casa: aprire e chiudere la stessa porta per tre ore di seguito. Poi non si deve mai aver paura del fallimento, bisogna andare in territori inesplorati e soprattutto saper attraversare i muri, come dice il titolo della mia autobiografia».
L’ultima parte dell’incontro è dedicata all’ultimo progetto della Abramovic, The Seven Death of Maria Callas, dedicato alle sette protagoniste interpretate dalla Callas. Ognuna muore in una maniera diversa e Marina le interpreta tutte, insieme al personaggio maschile, Willem Defoe. «Non amo il teatro perché lo trovo finto, ma l’opera mi ha appassionato moltissimo», confessa. Dopo un lungo tour europeo, il 15 maggio 2022 il lavoro debutterà al San Carlo di Napoli, dove aveva cantato la stessa Callas. Marina si alza in piedi e invita tutta la platea per questo nuovo appuntamento con la sua amata Italia.
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