Negli spazi della Collezione Maramotti a Reggio Emilia la prima personale italiana dell’artista Giulia Andreani, una serie di opere realizzate per l’occasione della mostra e in stretto rapporto e dialogo con la storia recente della città di Reggio Emilia. Giulia Andreani ha trascorso lungo tempo facendo ricerca in raccolte fotografiche cittadine, studiando, tra gli altri, l’archivio della famiglia Maramotti, dell’ex Ospedale psichiatrico Spallanzani, Istoreco e Biblioteca Panizzi. L’attenzione è al materiale fotografico ma anche a lettere, documenti, disegni, tutto ciò che può aiutare a ricostruire una memoria collettiva, più che personale, date le fonti per lo più anonime, e a delineare un contesto politico, sociale e familiare del Novecento.
Pittrice figurativa, Andreani ha un metodo di lavoro che impiega la ricerca di archivio e soprattutto la fotografia per la costruzione di una narrazione. La fotografia è trattata da Andreani come una traccia, un segno, un indizio per ricostruire o più spesso costruire scene e ritratti che hanno come protagonista privilegiata la figura femminile. Per il nuovo ciclo di lavori presentati a Reggio Emilia non si sottrae a questo approccio e anzi dedica molto lavoro e molto studio a luoghi e contesti diversi per la sua ricerca. Da questo accumulo di materiale, di storie e di volti, Andreani compone una scena e personaggi protagonisti che rivivono reinterpretando loro stessi.
E quindi chi è l’improduttiva che da il titolo alla mostra? Andreani non ci svela questo mistero, non associa un nome a un volto. È uno sguardo alzato di una giovane donna, a sfidare o forse più a intercettare un altro sguardo, quello di un fotografo che non possiamo vedere. Il luogo è la scuola di taglio e confezione fondata da Giulia Maramotti, ma potrebbe essere un qualsiasi luogo di lavoro: gli anni sono gli anni 40, nel pieno del fascismo, un dato che possiamo solo immaginare, da abiti e attrezzature. Cosa cattura l’attenzione di Giulia Andreani, alla ricerca di una svolta narrativa, di un centro attorno al quale fare ruotare la serie di lavori? Un volto iconico – spogliato appunto di riferimenti personali e di luogo – che la chiama, la invita a chiedersi di più e a ricostruire una scena, una storia, un pensiero. Improduttiva è aggettivo sfaccettato e connotante, denigratorio e liberatorio al tempo stesso… rimanda a un processo di emancipazione attraverso il lavoro che solo la storia repubblicana del secondo novecento potrà iniziare a costruire per le donne italiane e non certo esaurire… Improduttive sono le donne recluse nell’ospedale psichiatrico Spallanzani, (non nuoce ricordare come la maggioranza dei ricoveri spesso forzati in quelle strutture non certo di cura, fossero donne), che venivano ritratte e fotografate per scopi di studio e documentazione, una sorta di volto della malattia, in cui la persona non esiste ma esiste solo una etichetta : ‘le pazze’. Le ‘pazze’ dello Spallanzani diventano 7 piccoli ritratti che Andreani tratteggia, con il consueto uso del grigio di Payne, un tratto ‘debole’ come quello dell’acquerello, contrapposto alla forza malleabile del colore pittorico di scuola e che nella pittura rinascono, trasformate in ‘Sante’. È in questa evanescenza, in questo rendere sfumato il contesto e i volti, sta il rinnovato rispetto e la possibilità di riscatto di figure che certo, e questo è ciò che l’archivio testimonia, non hanno avuto accesso a nessuna via di uscita.
Improduttiva secondo gli stereotipi è La traghettatrice, in vita la diva reggiana Maria Melato, attrice che ha dedicato la sua vita alla recitazione e che spesso portava in scena ruoli di madri e battute autobiografiche su una maternità sofferta (il figlio che cresce lontano da lei). In questa grande tela Andreani compone uno dei suoi ricorrenti collage, qui la scena si fa articolata e complessa: la figura di un bambino che tiene in mano all’apparenza un giocattolo, in realtà un modellino di trattore, modellino prodotto durante l’occupazione delle Officine Reggiane degli anni ‘50. Una scena composta come in una cartolina estiva di un mare vicino e rassicurante: il pattino, il bambino in posa seduto sul molo… lontani in un cielo monocromo come il mare, due aerei che efficacemente riportano un tempo di guerra, pur in un tempo sospeso: i protagonisti guardano ‘in camera’ senza prestare apparentemente attenzione a ciò che accade dietro di loro o sulle loro teste.
Questo complesso impianto narrativo è frutto di un delicato e accurato processo di collage, di cui spesso Andreani si serve, che è parte costitutiva del lavoro: ricercare il volto, la figura più o meno nota, ritagliare, ricomporre e poi dipingere per creare accostamenti ‘impossibili’ nel tempo e nello spazio è la magia, l’artificio e la messa in scena allo stesso tempo. Una messa in scena che è riscatto, è documentazione ma è anche e soprattutto una lettura del passato tra riabilitazione e scoperta, un viaggio crepuscolare, nel quale la luce è sempre protagonista, quasi fosse un dipinto di un paesaggio, che vive di ombre e di chiaroscuri e in queste zone d’ombra o zone grigie trova lo spazio per una finzione che coinvolge lo spettatore nelle scene, o ne cattura lo sguardo, mai distolto.
Improduttiva non è nessuna delle donne raffigurate, evocate, narrate, e improduttiva non è l’arte di ripercorrere il passato addolcendo, ingentilendo, nobilitando, facendo salti temporali e di luogo con il lusso della finzione che si concede come se si scrivesse la trama di un romanzo. E certo non è improduttivo guardare e lasciarsi guardare da questi volti sconosciuti, che sembrano ingentiliti da un colore che assume, sulla tela, una sfumatura calda e avvolgente, o appaiono implacabili, freddi, quasi taglienti, quando il grigio si associa al bianco. L’articolata pratica di Andreani si legge come una personale e non scontata stratificazione sia tecnica, il combinare la pittura con la fotografia, il recupero di fonti scritte e documentarie, che riesce a essere convincente sia nella sequenza che nel singolo lavoro, a testimonianza di una capacità certamente produttiva, coerente e matura.
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