Il racconto della prima Biennale di Malta: una manifestazione coraggiosa e necessaria

di - 9 Maggio 2024

«C’era proprio bisogno di una ulteriore biennale ad ingombrare il già fitto calendario artistico?». Era questa la domanda con cui, in modo volutamente provocatorio, avevamo chiuso l’intervista a Sofia Baldi Pighi, giovane direttrice artistica della prima Biennale mai realizzata sull’isola di Malta, in corso fino al 31 maggio. Uno sforzo economico, ma anche umano, creativo e di visione, che ha coinvolto il team composto dalle curatrici Elisa Carollo e Emma Mattei, dal designer Nigel Baldacchino e l’organizzazione governativa di MUŻA – Museo d’Arte della Comunità Nazionale di Malta, per conto di Heritage Malta e Arts Council Malta, oltre agli 80 artisti maltesi e internazionali invitati a esporre.

Sofia Baldi Pighi, Emma Mattei, Elisa Carollo, Nigel Baldacchino,Ph by Brian Grech, maltabiennale.art

Per rispondere alla domanda, bisogna partire dalla natura profondamente molteplice di Malta: un’isola posta al centro del Mediterraneo, costantemente attraversata dal vento – «l’unica nostra barriera naturale è la Sicilia», dicono scherzosamente i suoi abitanti – da una contaminazione culturale la cui traccia permane nella lingua nazionale che mescola arabo, italiano, francese e inglese. Lo è nelle sue politiche, che negli ultimi decenni hanno spinto verso una cementificazione dell’isola attirando turismo di massa e navi da crociera, creando un paesaggio affollato che si alterna a aree più incontaminate che ancora permangono. Lo è anche nella questione dei diritti civili: mentre a Malta la comunità LGBTQIA+ è accolta e libera di manifestarsi, il diritto all’aborto rimane ancora un tabù e lo stesso vale per la questione delle migrazioni. La storia dell’isola, crocevia strategico tra Oriente e Occidente, rimane inoltre fortemente connotata da un passato bellico e coloniale: dall’Ordine dei Cavalieri, che nel Cinquecento edificarono il Forte di Sant’Elmo e la capitale La Valletta, passando per la breve presa napoleonica alla fine del Settecento e la conquista da parte dell’Impero Britannico, che di fatto rimase fino al 1974, anno in cui fu proclamata la Repubblica di Malta. Di questa eredità conservano le tracce i musei e le sedi istituzionali: dal Forte di Sant’Elmo, sul porto antistante La Valletta in cui sorge il National War Museum, al Palace Armoury in cui è conservata la più estesa collezione di armi al mondo, passando per il Main Guard Palace, di fronte al Grand Master Palace, l’Inquisitor’s Palace fino al The Armoury di Birgu, usato come armeria dei Cavalieri e in seguito ospedale dei reduci di guerra.

Luz Lizarazo, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo

Gli ultimi cinquecento anni di storia dell’isola sono connotati dalla guerra e questi palazzi sono solo alcuni di quelli in cui la Biennale di Malta si è insediata decostruendone il valore simbolico attraverso pratiche artistiche contemporanee. Non mere cornici di una manifestazione temporanea quindi, ma soggetti attivi di una relazione intima che l’opera intesse con il contesto e con la sua storia.

Ana Shametaj e Giuditta Vendrame, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo

Ne è un esempio immediato l’opera di Ana Shametaj e Giuditta Vendrame Sot Glas, un’installazione sonora a sette canali collocata tra i cannoni della Great Hall of Arms del Grand Master Palace, dominato da un coro di voci femminili che invocano canti e preghiere contro la guerra: nel repertorio anche una ninna nanna della comunità pashtun emessa da un cannone sonico, arma acustica solitamente utilizzata per disperdere la folla durante le manifestazioni o per disorientare le rotte dei migranti. L’opera fa parte della sezione Matri-Archive of the Mediterranean, concentrata nello stesso palazzo di rappresentanza: ad accogliere il visitatore, la maestosa installazione di Luz Lizarazo Mi cuerpo dice la verdad, una cascata di tessuto rosa e simboli legati al corpo femminile che dalla scalinata principale si riversa nell’androne, mentre il corpo (femminile) neolitico è al centro dell’opera di Nina Gerada, che con The Goddess Project (2017 – ongoing), che taglia il corridoio con una fila di piccole sculture in ceramica ispirate ai reperti preistorici maltesi; una riscrittura radicale dell’iconografia tradizionale è quella offerta da Teresa Antignani nella sua grande tela Deposizione, in cui a essere deposto non è il corpo di Cristo bensì quello di una donna martoriata, dalla pelle verde (un dettaglio che ci riporta a un riferimento esoterico, come la rana sconfitta dipinta da Bramantino in basso a destra nella Madonna delle Torri, o ancora la creatura dipinta quattrocento anni più tardi da Max Ernst, sempre in una posizione marginale della tela, nella Vestizione della Sposa), con riferimenti ai conflitti attuali come quello delle angurie – simbolo della resistenza palestinese – poste ai piedi della croce.

Teresa Antignani, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo
Sandra Zaffarese, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo

L’intervento che rielabora in modo più letterale (e letterario) il concetto di matri-archivio si trova tuttavia nella magnifica National Library, a pochi passi dalla co-cattedrale di San Giovanni in cui è conservato il capolavoro caravaggesco: protagonista della biblioteca nazionale è l’artista maltese Sandra Zaffarese, che con By a Lady esamina come il patrimonio archivistico sia composto da libri scritti da uomini che narrano gesta maschili, evidenziando l’assenza della storia femminile nella memoria. Disseminate, delle bandiere che riportano in varie lingue la scritta “Lei è qui da qualche parte”, sottolineano il carattere anonimo dell’autorialità femminile. Gli artisti maltesi, per cui questa Biennale rappresenta un palcoscenico inedito, costituiscono circa un quarto della kermesse, e non risparmiano attraverso le proprie opere una critica consapevole dell’isola e della sua storia. Ne è un esempio il lavoro (di una discrezione pungente) di Austin Camilleri, che con Siġġu, riproduce nei dettagli la sedia della Regina Vittoria rappresentata nella scultura ottocentesca che domina Piazza della Repubblica. La statua è un elogio alla presenza che solo l’assenza è capace di evocare: togliendo uno di quei simboli urbani a cui i nostri occhi non fanno più ormai neanche caso, riusciamo a coglierne con più consapevolezza il suo valore e le sue implicazioni politiche?

Austin Camilleri, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo
Guadalupe Maravilla, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo

A invertire i simboli è anche l’opera di Gaia De Megni che, durante la presentazione della Biennale ha inscenato, attraverso la performance Afelio, un cambio della guardia davanti al Main Guard Palace, nella piazza centrale della capitale, evocando i fucili attraverso sagome in vetro e feticizzando i gesti tipici della gestualità militare e delle dinamiche di potere. Le performance – le cui tracce sono ancora visibili nelle singole sedi espositive o nei diversi appuntamenti del vasto public program – hanno rappresentato il cuore pulsante della manifestazione: da Displacement, la marcia collettiva e guidata da portatori di bandiera di Andreco, che pone l’attenzione sui pericoli del cambiamento climatico e della desertificazione, a Tania Bruguera, che con The Poor Treatment of Migrants Today Will Be Our Disgrace Tomorrow (titolo più che evocativo) vandalizza una gigantesca bandiera dell’Unione Europea disegnando del filo spinato tra ogni stella in riferimento alle barriere fisiche e politiche; passando poi per ሜዲተራኔኦ – Mediterranean, l’installazione multimediale site specific che è stata teatro della performance dell’artista italo-etiope-eritreo Jermay Michael Gabriel presente nella sezione Decolonizing Malta: al centro, una replica del Leone di Giuda portato da Addis Abeba a Roma in seguito all’invasione italiana dell’Etiopia, simbolo di una riflessione sugli spazi geo-sociali dei mari e sui movimenti afrodiasporici.

Andreco e Tania Bruguera, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo
Sara Leghissa, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo

Tra le azioni più toccanti, impossibile non citare Unborn Celebration di Sara Leghissa, i cui esiti sono rimasti affissi sul muro perimetrale del Forte di Sant’Elmo. Prendendo spunto dalla poesia di Simon(e) van Saarloos, I Want an Abortion Every Day, l’artista punta dritto a uno dei tabù più radicati dell’isola, usando l’arte di strada – ovvero la pratica dell’affissione di manifesti – per farsi cassa di risonanza di chi invoca il diritto di poter scegliere di abortire. «I don’t want to imagine a child ten years later, I want to celebrate a life not existing, a potential not pressed into societal oppression. Even without a foetus pending in my non-binary womb-gut, I want an abortion every day», sono alcune delle frasi che si manifestano sul muro a ogni stratificazione, celebrando la vita dei nati, dei non nati, dell’identità non binaria, della liberazione dall’oppressione sociale legata al corpo. Il corpo è trattato in modo inconsueto in S.A.M. Slaughtering Archival Machine, installazione di Agnes Questionmark, tra le artiste italiane più dirompenti della nuova generazione, che presenta il parto cesareo di una creatura che potrebbe essere umana o aliena, riflettendo sull’operazione chirurgica come un metodo di controllo sociale. Un’altra grande stoccata politica la dà l’opera del collettivo suezcanal.xyz (Suez Canal Republic), collocata nell’antica cittadella dell’isola di Gozo, a 45 minuti di aliscafo da La Valletta: quello che a prima vista sembra un innocuo robottino è in realtà Embassy, uno strumento di controspionaggio capace di muoversi, automonitorarsi, immagazzinare dati e trasmettere frequenze, il tutto utilizzando il sistema di open source della NASA. «Poco fa abbiamo sentito dalle onde radio della Guardia Costiera maltese la richiesta di allontanare un barcone di migranti», raccontano gli artisti, che sono stati capaci di hackerare degli strumenti bellici per invertirne la funzione e renderli strumenti di autonomia – seppur utopica – politica. Un’operazione molto simile a quella, raccontata precedentemente, di Ana Shametaj e Giuditta Vendrame, che utilizzano armi acustiche di offesa per tramutarle in ataviche ninne nanne. Sugli stessi temi insiste il progetto collettivo di ricerca Rethinking Lampedusa, guidato da Leonardo Caffo con Carlo Alberto Giardina, Roberta Esposito, Truls Lie e Giovanni Fiderio, che attraverso un programma di appuntamenti intende interrogare in modo critico l’immaginario geopolitico di Lampedusa, mettendolo in questo caso in relazione a Malta partendo dalle questioni migratorie. Un progetto che avrà tra i suoi apici Mending The Mediterranean, un viaggio performativo, una traversata via mare tra le due isole prevista per il 13 maggio.

Suez Canal. Credits Sara Terracciano
Agnes Questionmark ph. Giulia Ronchi

Adottando la tradizionale terminologia della Biennale stessa, infine, il nostro personale “Leone d’oro” va al Padiglione Italia, uno degli undici padiglioni nazionali che compongono la manifestazione maltese e che vede protagonista il lavoro di Eugenio Tibaldi con la curatela di Francesca Guerisoli e Nicolas Martino. Prodotto da Fondazione La Rocca, Informal Inclusion è un progetto che analizza forme di sfruttamento inconsapevoli che mettiamo in atto nel quotidiano e le “eleva”, riscattandole, attraverso una pratica artistica e poetica. Il progetto, allestito all’interno di Villa Portelli, residenza storica recentemente acquisita da Heritage Malta, è composto da una prima sala in cui, immerso nel buio, il visitatore vede baluginare con una frequenza incostante dei lampi dati da telefoni che suonano emettendo versi di uccelli. Solo arrivando nella seconda sala se ne comprende il senso: l’artista ha infatti raccolto in tutta Italia bigliettini affissi ai muri delle città e scritti da persone di origine straniera che offrono servizi disparati (come portare la spesa, fare le unghie a casa, riparare un tetto, dare ripetizioni di lingua straniera, fino a prestazioni sessuali) per pochi euro. Gli annunci vengono incorniciati assieme a disegni di diversi tipi di uccelli che si trovano in natura e hanno delle caratteristiche assimilabili alla mansione proposta; vengono inoltre collegati a telefoni che suonano insistentemente, presenti nella prima stanza, facendo capire quanto la ricerca di servizi a basso costo sia comune e rischi al contempo di dare vita a pericolose nuove forme di sfruttamento del lavoro e umane non riconosciute.

Eugenio Tibaldi, Informal Inclusion. Foto Lorenzo Morandi
Eugenio Tibaldi_Informal Inclusion. Foto Lorenzo Morandi

La Biennale di Malta riesce quindi nell’intento di depotenziare la violenza, delegittimare l’oppressione, interrogare le verità assodate, riscrivere la storia raccontandola dalla parte dei vinti e non dei vincitori, riattualizzare le urgenze, farsi cassa di risonanza delle minoranze, pluralizzare le voci uniche. Ma, soprattutto, prova a offrire un nuovo punto di vista sull’isola stessa, a raccontare una storia diversa da quella ufficiale ma non meno necessaria, a mettere in luce il valore politico di una destinazione tristemente nota ai più come meta di erasmus e divertimento. Ricorda invece che l’isola è un’identità unica e irripetibile, ma che allo stesso tempo è un crocevia universale che assume un diverso significato se messa in relazione con la realtà del Mediterraneo, dando nuova linfa al tempo stesso anche alla connotazione del sistema Biennale. Forza certamente i limiti del politically correct, aprendo un vaso di Pandora che arriva a interrogare anche i divieti delle leggi nazionali. «Ma non spaventatevi di questo», ha detto la direttrice Sofia Baldi Pighi nel suo discorso di presentazione, pronunciato davanti al Presidente del Consiglio e alle maggiori cariche istituzionali dell’isola. «Gli artisti presenti vogliono riportare al centro del dibattito temi di valore collettivo e non imporre verità assolute». Un monito che si avvera nelle sedi diffuse che ospitano la manifestazione e che ci ricordano dell’opportunità storica di Malta (che speriamo non venga perduta) di aprire in modo concreto e unico un dialogo con l’arte contemporanea e i suoi protagonisti.

Laure Prouvost, courtesy of the artist, Photo Julian Vassallo

Tornando all’interrogativo con cui abbiamo aperto questo articolo, quindi, la Biennale di Malta si rivela spazio di riflessione sulle urgenze della contemporaneità attraverso una qualità artistica straordinaria delle opere esposte. Non solo: pone l’accento sul bisogno che biennali – potremmo definirle “di margine”, per la propria posizione geografica rispetto ai consueti centri artistici – possono rivestire per scelte politiche e per il coinvolgimento concreto delle pratiche artistiche nella vita delle comunità. Margini, quindi, che finiscono per assumere una rilevanza universale. È forse un modello di cui si prenderà sempre più consapevolezza, un modello che diventerà sempre più necessario nel futuro?

NB. Nell’impossibilità di citare tutti gli artisti e le opere esposte, riportiamo qui la lista completa:

Camilla Alberti, Anna Anderegg, Teresa Antignani, Jean-Marie Appriou, Rosa Barba, Simon Benjamin, Laura Besançon, Aaron Bezzina, Rebecca Bonaci, Josian Bonello, Isabelle Borg, Claude Borg, Maria Borg, Sumaya Ben Saad, Rebecca Mifsud, Amy Bravo, Tania Bruguera, Siwani Buhlebezwe, Teresa Busuttil, Anna Calleja, Austin Camilleri, Edson Chagas, Mel Chin, Leo Chircop, Joseph Cochran II, Andrea Conte (Andreco), Gaia De Megni, Mònica de Miranda, Adama Delphine Fawundu, Zehra Doğan, Dolphin Club, Madeleine Fenwick, Andrea Ferrero, Martina Georgina, Romeo Roxman Gatt, Nina Gerada, Sara Goldschmied, Eleonora Chiari, Bettina Hutschek, Anne Immelé, Daniel Jablonski, Barbara Kapusta, Dew Kim, Konstantina Krikzoni, Wioletta Kulewska Akyel, Sara Leghissa, Luz Lizarazo, Edson Luli, Basim Magdy, Guadalupe Maravilla, Jermay Michael Gabriel, Karyn Olivier, Zazzaro Otto, Adrian Paci, Post Disaster, Dijana Protić, Laure Prouvost, Keit Bonnici, Neils Plotard,
Agnes Questionmark, Anna Raimondo, Pedro Reyes – Artist Against Bomb,
Republic of the Suez Canal, Paul Sammut, Zineb Sedira, Ana Shametaj, Giuditta Vendrame, Anthony Spagnol, Franziska Von Stenglin, Tom Van Malderen, Fabrizio Vatieri, Raphael Vella, Matteo Vettorello, Cecilia Vicuna, Sandra Zaffarese.

Nata a Pesaro nel 1991, è laureanda nel corso di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l'Accademia di Brera. È residente a Milano dove vive e lavora come giornalista freelance per diverse testate di arte, concentrandosi sul panorama contemporaneo tramite news, recensioni e interviste su online e cartaceo. Oscilla tra utopia e inquietudine; ancora tanti sogni da realizzare.

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