Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia afferma che «nel lobo dell’orecchio è insita la memoria», segnando una intima relazione tra il suono e il processo memoriale, facendo corrispondere alla stratificazione del tempo e all’inarrestabile trasformazione delle sue significazioni il presente dell’ascolto che si condensa in forme sempre nuove. La memoria percorre la mostra Carborundum di Iginio De Luca alla Litografia Bulla di Roma e la performance sonora Tevere Expo, Scarti Sonori, si sedimenta e cancella in tracce segniche di una materia primaria che trattiene il tempo, si sommerge per riaffiorare in oggettualità rifiutate e affondate nell’alveo del Tevere, si propaga nello spazio e si estende in un’osservazione-ascolto relazionale e ritmico, composto in un racconto di identità oggettuali trasmesse come impronte trasformate in un continuo evolversi estetico e formale.
Traversando ciò che rimane di un passato come presenza flagrante di un ascolto e di una visione, l’artista si addentra nella concretezza materiale dei suoni, facendo emergere dall’orizzonte della linea temporale la profondità vocale di oggetti depositari di racconti seduttivi o sconosciuti, perduti e ricreati in nuove vibrazioni e visioni del sentire. Ne parliamo con lo stesso Iginio De Luca, in questa intervista.
Il tuo progetto Carborundum, prodotto e curato dalla storica Litografia Bulla a Roma, percorre il ritmo lento della cancellazione, attraverso l’azione ripetuta della polvere di carburo di silicio che abrade la lastra di pietra asportando quel che resta di antecedenti tracce formali. Nella sparizione di una memoria segnica si genera l’elemento sonoro, accolto successivamente come nuova impronta visiva sulla stessa materia erasa. Il suono appare sia creatore quanto distruttore, annullando e riempiendo la superficie litografica secondo un principio duale, cadenzato in biforcazioni di nuovi piani d’immanenza semiotica. Che ruolo ha la dualità nella tua ricerca artistica? Nella materia del suono e nella materia che ha un suono, la traccia come richiamo a ciò che si disperde ha in sé una fragilità del perduto o la resistenza e l’ostinazione della memoria?
«Il duale vive in me, la mia natura si esprime da sempre in bilico tra la provincia e l’Impero, la condizione clandestina, marginale e quella riconosciuta, ufficiale; uno smembramento poetico in porzioni (forse anche più di due) che da tempo deambulano in maniera disinvolta, oscillando dall’ironia alla maniacalità, dalla provocazione alla dimensione intima e domestica approdando, negli ultimi anni, anche a una sensibilità politica e sociale. Ora ho smussato i caratteri eclatanti di questa sensibilità, per una disposizione più crepuscolare che colga aspetti sotterranei e meno prevedibili della realtà.
Il suono e l’immagine diventano oggi gli elementi di questa dualità, che sempre più negli ultimi anni vivono in simbiosi d’idee e progetti compositi. Questa compresenza del sentire, mi vede fin da piccolo, a dodici anni, dipingere e insieme impugnare le bacchette dietro a una batteria gigante. Da quel giorno contagio l’immagine con il suono e, contrariamente a quanto diceva mio padre, “devi scegliere, o l’arte o la musica”, oggi non scelgo e convoglio nell’arte contemporanea ogni mia vocazione, convinto che tutti i linguaggi siano praticabili nel campo della ricerca creativa.
Nella mia fragilità e in quella del suono c’è contemporaneamente il desiderio della persistenza, anche qui in dinamiche duali, ossimori dell’esistenza. Più la memoria è lontana e ancestrale, più ha senso tirarla in ballo se rivive nell’oggi, sotto forma di entità sonora e spirituale; all’interno del laboratorio della Litografia Bulla il suono gremisce lo spazio, ne satura discretamente ogni volume eppure non è invasivo pur essendo presente. Una lettura multiforme e divergente della materia che attinge dal passato e che ora se ne libera, aprendosi a tante interpretazioni, a difformi e leggere traiettorie dell’anima».
Nella tua performance sonora Tevere Expo, Scarti Sonori, a cura di Daniela Cotimbo e Adriana Polveroni, realizzata durante la quarta edizione della fiera Roma Arte in Nuvola, il mondo sommerso dello scarto, adagiato sul fondo del Tevere come sostrato di reminiscenze abbandonate nello scorrere del quotidiano, diviene una storia acustica di oggetti sonori che riaffiorano e prendono voce. Visione e ascolto come concorrono nel racconto di una storia dello scarto e del deterioramento, di un nuovo sguardo e di un nuovo corso della materia in rovina?
«La performance sonora nasce come diretta evoluzione del progetto di affissione urbana Tevere Expo del 2021 e come forma di denuncia audio-poetica in grado di far riemergere e rendere udibile il celato, il sommerso. Attraverso il suono volevo rievocare l’anima inconscia del fiume, i suoi scarti, le stratificazioni del tempo e insieme scuotere quella dello spettatore, mosso dallo stridore di lamiere e altri oggetti recuperati. Durante tutto lo svolgersi della Fiera, ho estrapolato i suoni dimenticati dai detriti che in questi mesi ho ripescato dal Tevere, reliquie urbane che riemergono dai fondali, prodotti industriali e domestici ormai inutili. L’affissione pubblica del precedente progetto visivo, isolava questi rifiuti su maxi cartelloni comunali, ponendo lo spettatore in una condizione riflessiva di domanda, una possibilità di rispecchiamento etico e psicologico.
La stessa dinamica che ho riattivato con il suono, innescando un riscatto esistenziale, un’ultima possibilità di sopravvivenza acustica per la bicicletta elettrica a noleggio, la parabola rotta, il monopattino, la lamiera accartocciata. L’azione si è svolta in un turbinio di fragori, un concerto atipico dell’inservibile che nell’abbandono quotidiano della città, trova redenzione nel suono, il suo punto di deflagrante liberazione.
Trovi delle affinità con il pensiero di Giacinto Scelsi quando afferma che «Fissando a lungo un oggetto esso si ingrandisce» e parimenti «[…] ribattendo a lungo una nota essa diventa grande, così grande che il suono vi avvolge […] e quando si entra in un suono si diventa parte di esso, poco a poco si è inghiottiti». Che rapporto senti tra gli oggetti e il suono che fai emergere dalla superficie?
«È una bellissima citazione che mi trova del tutto in sintonia, sia con il compositore sia con il suo pensiero viscerale. È proprio questa visceralità che cerco nell’oggetto, un legame profondo, oltre le parole e la logica del pensiero che solo attraverso le vibrazioni acustiche posso intercettare. Una forma di connessione unica che si sposta dai confini tattili della materia fino alla sua liberazione spirituale, senza gli orpelli terreni, divenendo essenza impalpabile, pura energia sonora.
Il suono e il ritmo scandiscono la mia vita a tempo pieno, 24 ore su 24.
Lo spazio e lo scorrere del quotidiano sono nevroticamente puntualizzati da un continuo e instancabile percuotere, un martellare ossessivo, una rivelazione acustica del mio pensiero su qualsiasi cosa possa emettere suono, anche me stesso. Persino in macchina, imbottigliato nel traffico, mimo la batteria con gli accessori di guida; inseguendo la musica alla radio, coordino le dita creando timbriche differenti sugli oggetti a portata di botta. Era più che naturale che dopo decenni di attività, passassi alla contaminazione sonora del mio repertorio creativo».
Per entrambe le progettualità, la materia e il tempo, tra genesi e deterioramento, si regolano secondo frequenze memoriali diventando il prolungamento di un prima in un dopo o si presentano come rinascite incessanti?
«Ti direi entrambi i casi. Il tempo e la materia in queste opere, vivono tensioni cronologiche e strutturali, inceppano le prevedibili trascrizioni di un contesto, si sporgono verso altre letture e dimensioni dell’essere. Il mio lavoro da tanti anni vive queste continue rinascite e metamorfosi, non è mai veramente concluso; l’idea processuale che lo sostiene, come dice Nicolas Martino, nega la compiutezza e la mutazione diventa parte del meccanismo poetico, prospettando uno sviluppo futuro che rimetta ciclicamente in discussione certezze concettuali e formali.
Anche in Carborundum come hai giustamente osservato, “nella sparizione di una memoria segnica si genera l’elemento sonoro, accolto successivamente come nuova impronta visiva sulla stessa materia erasa”.
Potrebbe essere un moto infinito perché dalla memoria e dalla traccia incisa, si genera altro suono e via di seguito senza soluzione di continuità.
Ci sarà mai un segno di arresto definitivo, un punto di stasi, un fermo creativo?
Finché sarò vivo, mi auguro di no».
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