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Il ruolo dell’artista nella società della trasparenza, in cui tutto “serve” a qualcosa
Arte contemporanea
Flavio Favelli (Firenze, 1967), come sua consuetudine, rende la componente autobiografica il fulcro della sua personale. Ad accogliere il visitatore di “Progetto per fontana e altre figure”, fino all’ 11 marzo 2023 alla galleria Francesca Minini di Milano, è un francobollo degli anni ‘40 contrassegnato da un timbro che recita “visitate l’Italia”, e sulla parete di fondo un cartello stradale ci trasporta in Toscana, a Monterchi in provincia di Arezzo, nella terra di Piero della Francesca, nonché regione d’origine dell’artista. Sulla lamiera catarifrangente è presente un foro da arma da fuoco, come se il cartello fosse stato prelevato poco prima da qualche campagna dell’Alta Valtiberina, nei pressi del borgo medievale.
Ma ad imporsi nel campo visivo di chi accede alla galleria è una pila di casse di plastica per trasportare le bottiglie di vetro di acqua minerale, che si staglia come un grande totem al centro della sala. Boario, Norda, S. Antonio, Fonte Tavina, Idros… Il mercato delle acque minerali in bottiglia ha un’importanza particolare in Italia, che si trova in testa alla classifica del consumo mondiale pro capite. Negli anni del boom economico e con il diffondersi delle strategie pubblicitarie, si trova praticamente sulle tavole di tutti gli italiani. A quel tempo Favelli (classe ’67) era un bambino, ma è proprio a partire dall’estetica borghese degli ambienti familiari in cui è cresciuto – e che più volte lui stesso ha affermato di avere ben stampata in testa – che plasmerà il proprio immaginario. Questo cumolo colorato non è affatto casuale, è il progetto per una fontana che l’artista ha intenzione di realizzare da qui a poco. Un’opera che sarà esposta al di fuori dello spazio dedito all’arte. Una conversazione tra l’artista e Francesco Stocchi, riportata sui fogli di sala in mostra, si articola proprio attorno alla funzione dell’arte negli spazi pubblici. Attraverso una serie di argomentazioni i due sembrano porci un quesito: l’arte ha bisogno davvero di accontentare tutti? Di avere sempre un senso semplice ed ovvio? O piuttosto il suo compito è semplicemente quello di cambiare il punto di vista, senza un fine particolare?
La mostra di Favelli da Francesca Minini e il ruolo critico dell’arte
Viviamo in una società, quella occidentale, che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han ha lucidamente definito come “La società della trasparenza”. Trasparente è ciò che è logico e operazionale, ciò che ha sempre un fine ben preciso, un senso comprensibile in modo chiaro, semplice e ovvio. Secondo Favelli e Stocchi, anche l’arte è stata inghiottita dall’imperativo della trasparenza: recentemente le viene richiesto, sempre più, di avere una giustificazione, di servire alla rigenerazione urbana o essere a tema ecologico; uno slancio a senso unico di una politica che promuove solo progetti funzionali alle sue idee. Si sostiene l’arte per risolvere situazioni e trovare risposte, laddove, fino alla generazione passata, nascevano domande, che permettevano ad essa, e alle istituzioni culturali che la promuovevano, di svolgere il ruolo critico nella società.
La propensione alla trasparenza stabilizza il sistema in maniera estremamente efficace; la spinta ad ammantare l’arte di uno spirito positivo, e quindi di “giusto”, non le permette di mettere in discussione l’odierno sistema politico-economico, ma solo di confermarlo e ottimizzarlo. La trasparenza abolisce la possibilità di fraintendere, rinunciando in partenza a qualunque senso alternativo anche solo ipotizzabile. In nome del pensiero unico e razionale, la società della trasparenza declina ogni interpretazione. È una società ostile al piacere poiché, reprimendo qualunque fantasia, aspira a svelare ogni segreto, a mettere tutto a nudo; non tollera alcuna deviazione immaginativa e narrativa. Mentre invece la fantasia è essenziale all’economia del piacere, e ciò che la innesca è proprio il desiderio che si origina dal velo dell’occultamento, dall’impossibilità di sapere tutto. L’arte ha bisogno di giocare con l’ambiguità e l’ambivalenza, con il segreto e con il mistero, solo in tal modo accresce l’eventualità di deviare dal senso comune prestabilito. Per Francesco Stocchi l’artista dovrebbe essere come il giullare di corte, a cui era permesso offendere il re senza vedersi tagliare la testa. Per Favelli è colui che fa le cose al contrario, che mette un “bastone fra le ruote” all’ideologia dominante.
Il contrario e le sue virtù, la potenza della follia
L’antropologo Franco La Cecla, in un articolo del 2018 pubblicato in occasione del Festival dei Matti – attraverso un racconto sulle usanze di alcune personalità di “opposti” presenti tra le tribù pre-capitalistiche del Nord America – spiega come “il contrario” serva certamente a stabilire i confini delle regole, ma anche a far capire che queste possono essere cambiate e infrante. Per la tribù dei Lakota, ad esempio, queste figure erano chiamate Heyoka e rappresentavano lo spirito del tuono, Wakìnyan. Nelle comunità dei nativi erano figure stimate, e non solo potevano infrangere le regole e i tabù che la maggioranza era tenuta a rispettare, fare da specchio al comportamento degli altri era proprio il loro incarico sociale: cavalcavano i cavalli all’indietro, indossavano abiti al rovescio, parlavano al contrario, dichiarando di aver freddo quando avevano caldo e lamentandosi quando erano felici. Se ai nostri occhi questi personaggi anticonvenzionali risultano essere oggetto di ilarità, è solo perché abbiamo disimparato a rapportarci con la doppiezza e con l’ambiguità che invece stanno alla base della salute mentale collettiva e, se messe in piazza e rese pubbliche, sono in grado di rivelare le strettoie della vita quotidiana e le sue vie di uscita. Anche solo riconoscere la possibilità di un significato o un senso alternativo alla solita e noiosa logica razionale e assolutistica di stampo illuminista potrebbe essere lo slittamento ideologico di cui abbiamo bisogno.
<<Abbiamo l’arte per non morire della verità>> scrive Stocchi citando Nietzsche. Il compito dell’artista nella società della trasparenza è quindi serissimo e fondamentale, presuppone una grande sensibilità al contesto e la capacità di non uscire dal senso profondo del contrario. Secondo Flavio Favelli è un incarico simile a quello degli Heyoka che non facendo le cose al verso giusto – il verso giusto per la società – tiene viva la scintilla dell’autocoscienza politica, rendendo consapevoli le persone che un’alternativa è sempre possibile. Forse è questo il motivo per cui gli specchi dell’artista, in mostra da Francesca Minini, sono inaspettatamente rivolti verso il muro, rivelando al visitatore il proprio rovescio.