La mostra “EURAMIS” di Giulio Squillacciotti a Spazio Cordis di Verona, curata da Jessica Bianchera, è stata riaperta dopo il lockdown e posticipata fino al 26 luglio. Proponiamo qui una conversazione tra la curatrice e l’artista per capire in modo più approfondito lo studio, la ricerca, ma anche spunti e relazioni alla base di “EURAMIS”, una mostra che si focalizza sulla figura dell’interprete.
Giulio, prima di tutto parlerei del fatto che la mostra a Spazio Cordis, è sì collegata al lavoro che hai realizzato durante la residenza alla Jan Van Eyck Academie, Friends Indeed, e al progetto del film What has left since we left prodotto da Careof con il supporto dell’Italian Council, ma è anche un momento autonomo che sviluppa una narrazione parallela andando a fondo su un elemento specifico, quello della traduttrice, che negli altri due progetti ha invece un ruolo marginale. Le varie declinazioni progettuali che hai sviluppato attorno a un input iniziale, immaginare che in un futuro prossimo solo tre paesi sono rimasti nell’UE e si apprestano a scioglierla, ampliano e arricchiscono la comprensione generale traducendosi in progetto di ricerca, in film, in opere, in progetti espositivi, ognuno con una sua vita e un suo sviluppo indipendente. Si tratta di una caratteristica propria del tuo modo di lavorare, che ci parla del tipo di relazione che in generale si crea tra la produzione filmica e le opere, tra la trasposizione video e quella costellazione di oggetti che accompagnano tutti i tuoi progetti e che non sono assolutamente secondari rispetto all’elaborazione del film.
«Per quanto riguarda, invece, il fatto di aver voluto centrare la mostra a Spazio Cordis sulla figura della traduttrice, c’è da dire che in generale a me interessa molto il tema linguistico, il tema delle traduzioni, la trasposizione di senso e di significati che avviene non solo da una lingua all’altra ma anche, per esempio, attraverso le immagini. Mi interessano i processi di traduzione, di mediazione attraverso diversi linguaggi, mi interessa il modo in cui cambiano il soggetto e l’oggetto di un discorso in base a diversi codici, convenzioni, tradizioni, etc. Questo vale anche stilisticamente, dal punto di vista estetico, dal punto di vista culturale…».
Quindi, la figura della traduttrice, che abbiamo voluto come protagonista della mostra “EURAMIS”, incarna in qualche modo una serie di riflessioni sul linguaggio in senso allargato, sulla traduzione come strumento di mediazione attraverso un codice. Ma anche le scelte stilistiche possono essere considerate un linguaggio attraverso il quale i significati cambiano, le sfumature di senso si trasformano… In un certo senso anche il tuo è un lavoro di traduzione, forse quello della traduttrice è un po’ il tuo punto di vista, dicevamo che la traduttrice è un po’ come un narratore nell’economia del progetto. Ce la immaginiamo come una voce fuoricampo che parla dal suo translation booth di traduzione “dietro le quinte” ma che non ha solo un ruolo passivo. Forse potremmo costruire una similitudine tra il lavoro di una traduttrice/traduttore e il tuo lavoro, quello dell’artista, ma anche del regista: in un certo senso, un artista per produrre nuovi significati fa un lavoro di appropriazione ed elaborazione di contesti culturali, di immaginari condivisi o possibili, di codici linguistici che appartengono ad altri ambienti del sapere, per poi tradurli, trasformali in qualcosa di concettualmente ed esteticamente riconducibile al mondo dell’arte, raggiungendo in questo modo il pubblico attraverso una nuova strada.
«Si, quella dell’interprete è una figura che mi ha sempre incuriosito. Non ce ne curiamo particolarmente, ma è una figura tutt’altro che secondaria, che in certi casi ha svolto un ruolo attivo in contesti dove “si scrive la storia”. Nella parte di ricerca più strettamente intesa legata al progetto ho analizzato, per esempio, il processo di Norimberga, il processo a Eichmann in Israele (trasmesso per la prima volta in tv), il caso del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia dell’Aja… Qui l’interprete, la traduttrice, si è trovata a essere agente attivo nella scrittura della storia. Completamente invisibile, nel suo translation booth. Anche questo “oggetto”, la cabina di traduzione dove si trova l’interprete, ha un fascino tutto suo: è una sorta di “meta luogo”, un luogo nel luogo, uno spazio che isola la figura dell’interprete dal contesto, che la astrae dai fatti perché si concentri solo sulle parole. Nella maggior parte dei casi lei vede la persona che sta parlando, di cui deve tradurre le parole, ma nessuno vede lei. Una volta mi è capitato di lavorare per un backstage e c’erano queste due interpreti nel booth di traduzione: isolate nella loro cabina e fondamentalmente non viste, mentre parlavano gesticolavano, facevano segni con le mani, utilizzavano il gesto per dare enfasi al discorso, per rafforzarne il contesto semantico. Così ho pensato che sarebbe stato interessante spostare tutta l’attenzione su questo booth e sulla traduttrice, innalzarli a “soggetto della rappresentazione”, metterli su un palcoscenico e puntarci un occhio di bue. Mi interessava, scenograficamente l’effetto “coreografico” di quei gesti e la dimensione sospesa che accompagna il booth come una sorta di “unità abitativa” in cui si esplica la funzione della traduttrice».
In un certo senso potremmo dire che la traduttrice esiste solo all’interno del booth. La nostra traduttrice per lo meno. Non sappiamo nulla di lei, della sua vita, e questo non è importante, in verità, nel contesto specifico del lavoro e della mostra. Ciò che importa è il suo ruolo, la funzione specifica che assume quando entra nel translation booth.
«Esatto, e vorrei sottolineare che a me non interessava tanto fare un documentario sui traduttori, sugli interpreti. Non sono andato in giro a fare interviste per comprenderne il lavoro, il ruolo etc. Mi interessava elaborare un apparato narrativo che partisse da questo input ma che si sviluppasse poi interamente nell’ambito della finzione. Che poi è in generale quello che faccio: metto in atto una rielaborazione fittizia di fatti storici, culturali, sociali, partendo un input reale. I termini sono reali, la rielaborazione è fittizia. Quindi, in questo caso, acquisiti dei parametri di ricerca sulla figura dell’interprete, poi il lavoro si gioca tutto su un sottile confine tra il verosimile e la finzione».
Questa ambiguità tra reale e fittizio è resa anche dalle opere prodotte per la mostra: la serie dei tre translation booth in plexiglass, balsa e stampa 3d; le tre ceramiche che riproducono gli strumenti dell’interprete (microfono, taccuino, cuffie); il tappeto sui cui è stata stampata la sua testimonianza dell’interprete sul quel fatidico giorno in cui tre politici, i rappresentanti degli ultimi tre stati rimasti nell’Unione Europea, si incontrano per firmare la chiusura definitiva dell’Europa. Potremmo dire che se il film è ambientato nella sala dove è stato firmato il trattato di Maastricht, la mostra, EURAMIS; è “ambientata” nel translation booth dell’interprete che diventa esso stesso “oggetto-feticcio” e che contemporaneamente genera per gemmazione una serie di altri elementi, di oggetti “banali” come appunto il taccuino, il microfono e le cuffie che però vengono trattati come piccole reliquie. Contemporaneamente, quell’interesse per i linguaggi e per la traduzione anche a livello stilistico, si declina nella scelta di tecniche e materiali. In mostra abbiamo stampe 3d, ceramiche, un tappeto, tre light box, un’installazione audio. Quest’ultima è un particolare tutt’altro che secondario: si tratta di tre voci in lingue diverse che si accavallano e si sovrappongono rendendo il discorso praticamente incomprensibile. Sfruttando l’interfono dell’ambulatorio [n.d.r. Spazio Cordis ha sede in un ex ambulatorio medico] queste voci invadono tutti gli ambienti, saturano il paesaggio sonoro della mostra. L’intellegibilità del significato, così, è di nuovo affidata alla traduttrice che nel consegnare “ai posteri” la propria testimonianza fa un doppio lavoro di traduzione: non solo da una lingua all’altra ma anche riportando un tema così complesso a una dimensione quotidiana, famigliare, per riuscire a tradurre non solo il senso del discorso ma anche il complesso apparato di sensazioni e sentimenti che accompagnano un avvenimento radicale e cruciale come la negoziazione che porterà allo scioglimento di un’importantissima organizzazione internazionale con ricadute di portata storica.
«Sì, mi piace utilizzare materiali e tecniche diverse in maniera funzionale rispetto al ruolo che ogni opera riveste nel contesto generale dell’immaginario a cui sto lavorando. Per cui, per esempio, la cabina di traduzione si miniaturizza e i singoli pezzi che la compongono (a parte il plexiglas della “finestra” frontale, il minuscolo taccuino in balsa e la tendina che ne chiude il retro) sono stati realizzati in stampa 3D proprio perché doveva dare l’impressione di qualcosa di creato da zero. Invece per i tre Strumenti dell’interprete ho scelto la ceramica perché al tempo stavo in Olanda, a Maastricht appunto, e lì ho scoperto una radicata tradizione ceramica non solo nell’artigianato (nel quartiere dove vivevo c’erano moltissimi laboratori), ma anche nel gusto dei cittadini. A Maastricht, quasi tutte le case che hanno una finestra che dà sulla strada, esibiscono una collezione di piccoli oggetti di ceramica, soprammobili per lo più, alcuni molto kitsch. Sono oggetti che le persone scelgono non solo di comprare per tenerli nel proprio salotto, nel privato delle loro abitazioni, ma che esibiscono, che mostrano attraverso questa specie di vetrina. C’è un’intenzionalità precisa, un fare quasi narcisistico. Si tratta di una tradizione non scritta che però ci racconta qualcosa in più su una cultura, su una società, su un codice di comunicazione per immagini che passa attraverso oggetti apparentemente insignificanti. Ecco perché ho scelto di rappresentare i tre elementi simbolo del lavoro dell’interprete in questo modo, utilizzando la ceramica e producendoli in maniera molto artigianale senza una precisa attenzione per il dettaglio realistico. Devono ricondurre a quell’immaginario dell’oggetto fittizio, del feticcio. Sul lavoro audio invece: si tratta in questo caso dell’audio realizzato per il video che componeva l’installazione Friends, Indeed che per la mostra a Spazio Cordis è stata scomposta nei suoi elementi singoli (video, audio, light box), proprio come è successo al booth. Il video riproduceva, come fossero i titoli di coda di un film, la testimonianza immaginaria lasciata dall’interprete sulla sua esperienza di mediatrice nell’atto ufficiale di chiusura dell’UE. A Cordis lo abbiamo tradotto in italiano e viene riprodotto a ciclo continuo su un monitor nella sala d’aspetto. Il testo originale in inglese, invece, l’ho fatto stampare su un tappeto di 130 x 200 cm (Interpreter’s Feelings, 2020) collocato ai piedi di questa base su cui abbiamo innalzato il translation booth a comporre, insieme alla fotografia di una donna che rappresenterebbe l’interprete, una sorta di trittico, un simulacro su cui sono puntati tre faretti a occhio di bue giocando quindi sull’ambiguità tra reale e fittizio con una strategia allestitiva che mima il set cinematografico o il palcoscenico di un teatro ma in maniera un po’ kitsch, proprio per enfatizzare la finzione».
Jessica Bianchera / Giulio Squillacciotti – Skype del 15.05.2020
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