Fino al 27 febbraio, il Museo Novecento di Firenze ospita una mostra diffusa dell’artista inglese Jenny Saville (1970, Cambridge). Un progetto che abbraccia le sedi di Palazzo Vecchio, il Museo dell’Opera del Duomo, il Museo degli Innocenti e il Museo di Casa Buonarroti. Ci sono cose che succedono solo a Firenze. Ad esempio, esaudire il desiderio di una ragazza che, dal 1999, si chiede cosa ne è rimasto della pittura gigante, quella che non sta nell’apertura di braccia dell’uomo vitruviano. Fonte di ispirazione, per lei, sono state le tele di Rothko e Pollock, che andava a scrutare al Met. “Quella pittura veniva presa sul serio”, notava. Anche lei ambiva a tanto e, così, fa altrettanto.
Siamo nel Salone dei Cinquecento a Firenze, spazio di tanti corpi distesi, affrescati da quel Giorgio Vasari che nel suo “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” non ci ha lasciato nemmeno una testimonianza di una pittrice donna. Ed è proprio una ragazza inglese che, invece, arriva dal 1999 per fare un nuovo punto sullo sguardo. Il suo Fulcrum, presentato la prima volta da Gagosian nell’ultimo anno del ‘900, ritrae tre donne, avvinte da una corda e dalla loro carne. È l’artista a dirci che la pelle umana è un soggetto su cui tutti i pittori si sono fermati più del dovuto; forse perché vi percepivano un recinto dove poter giocare solo con la luce.
Ma oltre a tessere questo un filo verso il passato, Saville ci racconta anche che un volto disteso ci sprona verso un nuovo senso di gravità con l’opera: cercando di stabilire un contatto, incliniamo lo sguardo e, così, ci concediamo all’immagine. Un binomio uomo-occhio che è inedito nelle pitture del Salone dei Cinquecento: quando Vasari dipinge corpi distesi, questi sono solo il mezzanino visivo che porta alla calca per la difesa di Firenze, ai piani alti della battaglia.
Lasciato il Palazzo Vecchio, la mostra ha il fascino di condurci per mano in altri pertugi di Firenze. Uno su tutti, Study for Pietà (2021) che l’artista pone in una piccola nicchia all’angolo della Pietà Bandini (c. 1547-55) di Michelangelo. È un disegno alto quasi due metri e realizzato con carboncino su tela grezza «Quasi a mantenere un legame con il non finito del maestro del Cinquecento», scrive Sergio Risaliti nel catalogo. Sappiamo infatti che questa scultura, recentemente restaurata, è in marmo di Serravezza, imposto dai Medici al Buonarroti poiché proveniente da cave di loro proprietà. Era sicuramente meno pregiato di quello di Carrara e non sappiamo se sia stato questo il motivo a monte dell’abbandono; le cronache dicono che, una notte, l’artista cominciò a martellarla. Fu il suo servitore a salvarla, abbastanza da preservare anche il volto di Nicodemo, dove lo scultore ha lasciato un calco di sé settantenne.
Per Saville, il ritratto è qualcosa che rompe gli argini del tempo ed è, in fondo, uno dei motivi per cui non smette di esercitarsi in questa pratica. Pensa a Dürer, ad esempio, il primo artista ad aver realizzato un autoritratto in quanto tale, non celato da altri personaggi o messo ai margini del quadro. Ma scruta con curiosità anche il web, di cui la attrae la continua sovrapposizione dei volti: «Con una semplice app, posso mettere la mia faccia su quella di mio figlio».
«A questo si ispirano i miei ultimi dipinti», afferma. E di questa carrellata di esperimenti a olio e carboncino ne dà testimonianza l’allestimento al Museo Novecento. Saville, come erede della Scuola di Londra, ha una sorta di memoria genetica legata alla riproduzione e all’immagine. Chissà se è a conoscenza del fatto che Francis Bacon, nel creare la sua versione del ritratto di Innocenzo X di Velázquez, lo ha fatto solo a partire da copie e riproduzioni fotografiche, in scanso all’originale.
Saville lavora allo stesso modo: crede che la pittura non sia finita, ma sa benissimo che ogni passo avanti, deve esser condotto a partire da lacerti che abbiamo, o scegliamo di metterci, alle spalle. Bacon esautorò un’immagine in tutto il suo vigore; Saville lavora con quelle che trova sul web o da ritagli di vita reale. Sa che sono stanche anche loro, a modo loro.
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