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20
aprile 2021
Imagomorphosis, Pietro Catarinella – Prometeo Gallery
Arte contemporanea
Milano
Attraverso un racconto-review dedicato ai lavori di Pietro Catarinella, ci immergiamo nel suo universo “imagomorfico” in mostra nella project room di Prometeo Gallery, fino alla fine di maggio
Siamo entrambi in piedi, lo sguardo fisso sull’oggetto appeso alla parete bianca. Sembra un quadro, ma non lo è. Al posto delle pennellate a olio mi ritrovo davanti una fotografia del dipinto Uomo disperato (1843-1845) di Courbet, stampata su un foglio di poliestere teso su un telaio di acciaio opacizzato. A qualche centimetro di distanza altri due, stesso materiale e dimensioni, nei quali scopro, sovrapposto, il ritratto che Pietro ha fatto di sé. Invidio gli occhi infuocati di Courbet in quell’autoritratto, le mani sui capelli, la bocca spalancata in un grido silenzioso: pulsione di vita allo stato puro. Sono entrambi lì, mi osservano.
«Come si intitola l’opera?» chiedo, senza togliere lo sguardo da quell’alternanza di trasparenze e opacità, rese ancora più drammatiche dall’illuminazione led. «INSTANT MIMESIS #3» risponde Pietro. «C’è voluta una lunga conversazione con Mauro Zanchi, autore del testo curatoriale, per trovare il perché del titolo della mostra e dell’opere». Annuisco con il capo. Perché non sono stata io a scrivere quel pezzo?
«Ma, come ti dicevo prima», riattacca lui, «le mie guide spirituali, oltre a Burroughs – ovviamente – e la sua mostra “Taking Shots”».
All’improvviso si interrompe e il suo sguardo si allontana oltre a me, verso la sala adiacente della galleria, dove Iva Lulashi espone i suoi ultimi dipinti inediti accomunati nella mostra personale “Passione Cola Passione Scorre”.
«Scusami, torno tra un attimo» dice e si incammina verso l’ingresso. Una donna dai capelli bruni chiude la porta dietro di sé con un saluto caloroso, gli occhi sorridenti sopra la mascherina.
«Ciao Iva» risponde Pietro in tono decisamente più rilassato di prima. Lei si sistema la frangetta e alza la mano destra verso di me. Ci scambiamo da una stanza all’altra un fugace “ciao-come-stai-bene-invece-tu?“, cordiale ma zero impegnativo. Ci conosciamo appena da inaugurazioni, cene, streaming, e tutta la sottocategoria di eventi che tengono in piedi il microcosmo dell’arte. Vedo entrambi camminare verso il centro della sala alla ricerca di più intimità. Organizzano una sorta di brindisi da fare più tardi, qualcosa a cui chiaramente non sono stata invitata.
Ritorno a INSTANT MIMESIS #3. I telai di poliestere acquisiscono profondità. Approfitto della solitudine per guardare la mostra in libertà. Cinque sono le opere di Pietro esposte nella Project Room della Prometeo Gallery. Tre di loro concepite nel filo concettuale della citazione attraverso gli autoritratti di maestri del passato. Nel rievocare Courbet, Caravaggio e Rembrandt, l’artista rivela la sua natura di osservatore: citando si confessa devoto alla storia dell’arte e nella rielaborazione attraverso nuovi mezzi e linguaggi si conferma testimone d’un presente incerto, intermittente, sancito da legami sociali diventati rapporti mediati dalle immagini. Strato dopo strato si aggiungono al primo sguardo percorsi di lettura alternativi, ma allo stesso tempo – e questo lo considero un pregio –, porgono un’ancora perfino a ciò che con i miei colleghi chiamiamo con certo snob “pubblico non specializzato” o “non addetti ai lavori”. In entrambi casi dei “non”.
Pietro e Iva non si fermano. Continuano a chiacchierare, ridono, soprattutto ridono. Percorro una seconda volta la sala, intima e affidabile forse perché perfetta nel suo essere immacolata. Guardo ogni uno dei cinque oggetti installativi alla ricerca di dettagli sicuramente sfuggiti prima. Nei due lavori intitolati IMAGOMORPHOSIS #2 (2020) e IMAGOMORPHOSIS #3 (2020) riconosco la mano precedente dell’artista, quello stesso dell’installazione Data Fall in un vecchio garage di Milano qualche anno fa. Invece nelle opere in cui compare la citazione attraverso l’autoritratto si svela un nuovo grado di maturità. Forse per questo Pietro ha scelto d’iniziare il percorso della mostra da quell’opera. Nell’insieme, però, persiste la ricerca avviata nel 2014 quando, dopo la laurea in Architettura a Roma, decide di buttarsi in pieno nella fotografia. Frequenta il College of Art di Central Saint Martins a Londra. In quel periodo lo colpisce il saggio Are Some Things Unrepresentable? di Alexander Galloway che, sulla scia di Jacques Rancière, si chiede Cosa è oggi irrapresentabile? Pietro inizia a interrogarsi sui cambiamenti nella società dei bit e della risoluzione in pixel. Cosa accade nell’intreccio tra realtà e rappresentazione, quando le immagini sembrano addirittura avere più forza del mondo stesso? Da questi interrogativi nasce Data Traffic, il nome della sua ossessione come artista. In realtà è dietro questo alias che trovi Pietro su Instagram.
Dato che sono ancora da sola in questo mondo “imagomorfico” mi dico “Sai, cosa c’è? Mi faccio un selfie”. Quattro scatti finché ne scelgo uno come istagrammabile. Dall’essere all’avere e dall’avere al sembrare (pure qui sto rubando a Debord).
Devo ancora scaricare le app per i filtri e i ritocchi.
Ritorno a INSTANT MIMESIS #3. So già che quel lavoro rimarrà nella mia memoria. L’opera d’arte è forse anche questo: un mosaico di ricordi, sensazioni e volontà di ricostruire a piacimento. Mi sposto a piccoli passi da destra verso sinistra per cercare altri punti di vista: il volto di Courbet ora si rimescola con quello di Pietro; sembrano persino moltiplicarsi. Le espressioni si sfocano ed ecco: il gioco degli sguardi diventa a tre una volta avvertito il riflesso dei miei occhi sopra i loro. Penso a Giulio Paolini e alla sua opera Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967), a quel periodo in cui l’artista intensifica l’uso della fotografia per indagare la figura dell’autore. Cita, fa riferimenti ai capolavori della storia dell’arte, indaga lo scambio di vesti tra pittore e fruitore. Poi, vent’anni più tardi, Richard Prince, presenta Untitled (Cowboy), un’opera nata dalla fotografia del cartellone pubblicitario della Marlboro. Proprio nello stesso 1989 in cui con la mia voce mutevole quattordicenne imitavo Madonna cantando Like a Prayer e Pietro, invece, ne aveva soltanto sei. Forse giocava al pallone in un paesino vicino a Roma perché persino agli intellettuali piace il calcio. Allora non sapevamo cosa volesse dire Mort à l’auteur! Forse neanche adesso lo so davvero.
Ritorno con i miei svaghi ragnatelosi alla fotografia, agli screenshot fatti da internet e all’accavallamento d’immagini con cui lui rende tangibile l’intertestualità. Collage, ready-made, assemblage, cosa importa. Sovrapposizione, quindi, simultaneità e un’irrevocabile super-stimolazione ci riportano alla supremazia del digitale, alla cultura riconosciuta come “colta” (diventata status-symbol) e a quella detta popolare. Attraverso il cellulare, l’oggetto di consumo più diffuso, l’artista desacralizza i capolavori e scardina le scarse sicurezze del sistema dell’arte, spingendo persino a domandarsi se dalla transubstanziazione dell’esperienza estetica l’opera ne soffre o ne approfitta.
Simultaneamente il carattere d’impronta della fotografia, in quanto traccia di un evento passato, contrassegna lo slittamento tra diverse dimensioni spazio-temporali. Quella del fruitore, il qui e ora dell’artista, e altri tempi e spazi inseriti attraverso opere o elementi della cultura di massa, assegnando persino nuovi significati.
La conversazione fra Pietro e Iva si esaurisce con il suono del campanello. Lei si avvia verso la porta d’ingresso per accogliere forse un collezionista. «Scusami…» disse Pietro ritornando finalmente da me. «Come ti dicevo prima, le mie guide spirituali» fa una pausa e mi guarda mentre scruto gli occhi di Courbet che mi interpellano a sua volta. Subito dopo prosegue «sono soprattutto Rauschenberg, Cage e Schwitters. Ho cercato di vedere ogni mostra che potevo dal vivo. Sono stato fortunato perché a Londra ho pure visto la prima grande retrospettiva di Rauschenberg in UK» ragiona sistemandosi la mascherina «Credo sia stata nel 2017 se non sbaglio.»
«Sì, nel 2017, alla Tate» confermo, aggiungendo un dato inutile come di chi vuol far sapere di conoscere il mondo, ma di questa cretinata me ne rendo conto una frazione di secondo dopo.
«Vedi… tutti questi artisti,» prosegue lui, ora rapito dai suoi pensieri, «come pure Burroughs, si occupano dell’ordinario, partono da ciò che accade là fuori e lo costringono in una struttura.» Rimaniamo per un po’ in silenzio senza togliere lo sguardo da INSTANT MIMESIS #3. Prende il suo tabacco trinciato American Spirits e le cartine dalla tasca dei pantaloni. Dopo alza le sopracciglia e aggiunge: «La verità? Penso che il sublime non debba più essere cercato nell’evento eccezionale o nell’esperienza esotica, ma divenga fruibile nel vissuto quotidiano».
Osservi. Giochi. Ti senti un bambino. Chiedi il prezzo. Lo vuoi per te, ora e a casa tua. Non importa tutto il resto. Né i paragrafi precedenti né i grandi paroloni.