Sono realmente infinite le forme che può assumere l’immagine in movimento. Una trasformazione costante di ciò che si vede, permanendo sempre riconoscibile, una trasmigrazione attraverso i linguaggi e gli strumenti, come in una sorta di racconto postmitologico, dove il limite tra magia, tecnica e tecnologia – che sia la parola, il corpo o lo schermo – tende a sfumare. Così, per seguire queste diramazioni e prefigurare le estremità del presente prossimo, si sviluppa Ibrida, Festival Internazionale delle Arti Intermediali, la cui ottava edizione si svolgerà a Forlì, dall’8 al 10 settembre 2023, con anteprima il 7 settembre, negli spazi di EXATR, hub votato al contemporaneo situato nel centro storico della città.
In calendario, live performance, proiezioni, installazioni, incontri, workshop, presentati da artisti e autori di tante nazionalità diverse, a restituire un panorama stratificato e intricato. Ne parliamo con i direttori artistici, Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, e con Bruno Di Marino, curatore della mostra di Virgilio Villoresi, che ha anticipato l’apertura del Festival e sarà visitabile fino al 7 ottobre, negli spazi della Fondazione Dino Zoli.
Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, otto edizioni per Ibrida, un numero che rappresenta un ciclo. Come è cambiato il Festival in questi anni pienissimi di trasformazioni? Che impressioni provate guardando indietro, quali suggestioni pensando avanti?
FL e DM «Un Festival non è un luogo, ma una comunità. Arrivare all’ottava edizione significa aver superato diversi ostacoli e criticità, grazie a una vera e propria comunità fatta di persone che cresce, anno dopo anno. Il nostro Festival si svolge durante tutto l’anno solare in uno spazio fisico ma anche digitale che ha un filo conduttore e una tematica ben definita, legata alle arti intermediali. All’interno di questa visione c’è sempre spazio per evolversi e migliorarsi. Ed è questo in parte il nostro obiettivo, crescere a ogni edizione aggiungendo nuove abilità e conoscenze. Sotto questo punto di vista il Festival è cambiato molto, tantoché possiamo dire di avere uno storico rilevante.
Siamo partiti da una prima edizione dove eravamo solo in due (Francesca e Davide) a organizzare tutto, con risorse davvero limitate, contando solo sul supporto concreto da parte di pochissimi soggetti, fino alla situazione strutturata di oggi dove abbiamo un gruppo fantastico che lavora oltre 6 mesi l’anno per rendere questo Festival una realtà praticabile. Negli anni abbiamo aggiunto incontri, workshop, un’intera sezione dedicata alle installazioni e, grande novità di quest’anno, un Premio per la video arte internazionale. Per i prossimi anni abbiamo in serbo altre novità, ma le lasceremo alla curiosità di chi vorrà venirci a visitare nelle prossime edizioni».
Un Festival dedicato, in particolare, alla videoarte, tiene traccia delle evoluzioni – ma anche dei ritorni, delle riprese – della tecnica e della tecnologia. Come sono evoluti gli approcci e le soluzioni dei tanti autori che avete coinvolto?
«L’arte è innovazione ma anche un eterno ritorno. Spesso per andare avanti l’artista rovista e rielabora quello che è stato fatto in precedenza. Nel video ci sono tanti esempi, il più eclatante è quello del found footage, dell’utilizzo di film e pellicole, famose o meno famose, che vengono rielaborate in digitale in modo del tutto innovativo. Oppure, abbiamo artisti che si rifanno al pre-cinema, come nel caso di Virgilio Villoresi che utilizza la tecnologia in maniera limitata, per pulire i frame dagli artifici, e strumenti artigianali.
Le tecnologie evolvono anno dopo anno con grande velocità e con la stessa velocità gli artisti la assorbono e la inseriscono nel proprio lavoro creando nuovi mondi. Quest’anno, chi verrà a Ibrida avrà l’opportunità di vedere lavori che non tralasciano la riflessione sul presente, sulla società, sull’uomo e soprattutto sulla tecnologia stessa, mettendola in discussione».
Sempre in tema di cambiamenti, Novacene è la parola chiave di quest’anno. A cosa è dovuta questa particolare scelta?
«Siamo stati sovrastati dall’ondata mediatica dell’Intelligenza Artificiale, arrivata con tanta intensità da lasciarci storditi. Una tecnologia esistente da anni ma che ora ha avuto un’esplosione, non solo nel mondo dell’arte, ma anche nella quotidianità di ognuno di noi. Non potevamo quindi non dedicare uno spazio a una riflessione su questo tema.
Senza creare allarmismi e lasciando la porta aperta al pensiero critico e al dibattito, abbiamo scelto come titolo-tema dell’edizione 2023 Novacene rifacendoci al libro di James Lovelock, illustre scienziato scomparso nel 2022. Nel volume Lovelock prevede la fine di un’Era, l’Antropocene, e l’avvento del Novacene, dove, in breve, le intelligenze artificiali avranno capacità di calcolo 10mila volte più veloci dell’uomo e saranno in grado di prendersi cura della Terra e dell’essere umano.
Dedicheremo all’AI, in particolare, due workshop condotti da Filippo Venturi e Igor Imhoff, che da tempo lavorano con questa tecnologia, per dare a chi lo desidera gli strumenti per iniziare a creare nuovi mondi o semplicemente per comprendere le potenzialità del mezzo».
100 opere video nel programma di proiezioni, individuate a seguito di una call internazionale. Come è stata fatta la scelta? È possibile tracciare una o più linee stilistiche, formali o concettuali condivise tra le ricerche proposte?
«Oltre 400 opere sono arrivate tramite la nostra open call. Una quantità di immagini incredibile giunte da 33 diversi Paesi. La selezione viene fatta da noi e dai nostri collaboratori. Insieme analizziamo le opere e le selezioniamo, in primis in base a quella che è l’analisi critica dell’opera (contenuto e forma) poi in base alla poetica del Festival. Ci sono tante opere bellissime che ci sono arrivate e che non abbiamo selezionato perché non in linea con il linguaggio del Festival, per esempio cortometraggi o mini-documentari narrativi.
Come ogni anno ci siamo fatti la stessa domanda: Esiste una linea che accomuna gli artisti? Magari in base alla provenienza geografica o culturale? Abbiamo notato una tendenza globale a trattare temi di attualità, per esempio quest’anno ci sono stati molti lavori legati all’ambiente e alla fragilità dell’ecosistema. Inoltre, abbiamo sempre difeso il codice parlando di ibridazione dei linguaggi: questa non è più una tendenza ma ormai un dato di fatto. Si ibridano più discipline in un’opera unica, creando così un terzo elemento che è diventato la norma e non più l’eccezione.
A Ibrida Festival abbiamo accorpato i lavori in tre sezioni differenti che riguardano più che altro le tecniche utilizzate: Segnali (codici e nuovi linguaggi), Percezioni (animazioni e illusioni ottiche) e Kinesis (video performance e corpi in movimento)».
Oltre allo schermo, c’è anche una cospicua sezione di performance. Come dialoga la dimensione del live con quella della riproduzione?
«Il filo conduttore di Ibrida Festival è il video e questo vale anche per la performance live, che sia musicale o altro. L’immagine video deve essere presente come parte integrante del live e non come decorazione visiva. Il dialogo con l’immagine proiettata è costante e live, in pratica consiste in un montaggio delle immagini in diretta in base agli input sonori prodotti. Infatti, già da diversi anni non parliamo più di performance ma di Live Cinema & Music».
Bruno Di Marino, in occasione del Festival verrà presentato anche il suo ultimo volume, Nel centro del quadro. Per una teoria dell’arte immersiva dal mito della caverna al VR. Sembra una storia lunga e complessa, quali sono i punti salienti?
BDM «Intanto voglio spiegare il titolo, che è assolutamente profetico, poiché è desunto dal Manifesto tecnico della pittura futurista, e mi è subito sembrato adatto a una ricognizione di questo tipo, perché alla fine ciò cui l’arte tende in modo sistematico da almeno due secoli è il sempre maggior coinvolgimento fisico-emozionale dello spettatore nell’opera. I punti salienti sono ben 14, che io riassumo alla fine del libro e si tratta in realtà di quelle caratteristiche attraverso le quali è possibile individuare se un’opera sia davvero immersiva o meno. Diciamo che il libro segue un andamento cronologico e partire dalle grotte di Chauvet di 36mila anni fa per indagare come e quanto la storia delle arti abbia da sempre previsto un’interazione tra il pubblico e l’opera.
Del resto noi abbiamo sempre studiato l’arte dal punto di vista del creatore, poco da quello del fruitore, mentre l’opera è sempre il risultato delle emozioni e delle conseguenti reazioni che suscita in chi la osserva. L’invenzione della prospettiva, così come l’uso del trompe-l’-oeil fino ai dispositivi del XIX secolo costituiscono le basi per comprendere come le nuove tecnologie e i nuovi media di oggi non siano altro che il punto di arrivo di un diverso modo di creare e di guardare le immagini.
Il punto saliente del libro è proprio questo: il futuro è già tutto nel passato, non solo sul piano concettuale ma anche su quello tecnologico. Conoscere il passato della visione è, dunque, necessario non solo per andare avanti nella ricerca, ma anche per evitare che la realtà virtuale e quella aumentata siano utilizzate in modo banale e spettacolare a uso e consumo del grande pubblico, mentre è necessario che ne abbiano accesso soprattutto gli sperimentatori e gli artisti».
Ad anteprima del Festival è stata presentata anche una mostra di Virgilio Villoresi, visitabile alla Fondazione Dino Zoli, intitolata Animagia. Dispositivi, visioni, film. Cosa vedremo? Anche in un’epoca di algoritmi rimane spazio per la magia?
«Assolutamente sì, e questo discorso si lega al discorso che facevo prima. La vera avanguardia oggi è nel limitare al minimo le tecnologie digitali. Credo proprio che scriverò un manifesto su questo. Attenzione non si tratta di “passatismo”, di essere in polemica con la tecnologia o con la modernità. Del resto io mi occupo di new media e non posso certo essere tacciato di essere un reazionario, ma solo di renderci conto che siamo arrivati a un livello di saturazione tale che ormai le tecnologie (e non solo l’AI) ci sta espropriando della nostra creatività.
Villoresi basa la sua estetica su una magia analogica, che si ricollega all’epoca del pre-cinema e gioca su effetti artigianali come le prospettive forzate, le illusioni ottiche, la commistione di tridimensionale e bidimensionale. Con i suoi film, spot e video musicali installati in mostra e con le sue macchine cinetiche (Flip-book e zootropi meccanici, dispositivi a luce polarizzata, giochi di proiezione luminosa) esposte alla Fondazione Zoli, Villoresi ci mostra come sia possibile non solo creare opere interattive che coinvolgono in prima persona lo spettatore, ma anche mettere in atto una riflessione sui concetti di tempo e movimento, senza usare effetti speciali digitali ripetitivi e standardizzati, ma solo facendo leva sulla forza della fantasia.
Villoresi lo fa nel campo dell’animazione sperimentale, Nolan con il suo Oppenheimer lo ha fatto nel campo del cinema mainstream, ma il risultato non cambia».
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