Se siete a Bologna, ancora pochi giorni per visitare Abbandona gli occhi, personale di Patrick Tuttofuoco, ospitata fino a domenica 18 febbraio 2024 nella sala Convegni Banca di Bologna di Palazzo De’ Toschi. Inaugurata in occasione di ART CITY Bologna 2024 e a cura di Davide Ferri, la mostra è l’esito di un progetto speciale di Tuttofuoco, con lavori recenti e nuove produzioni che portano l’attenzione al medium scultura, realizzata con materiali industriali/sintetici come il metacrilato e classici come il marmo. Il fulcro? La capacità dell’arte di generare campi energetici in cui muoverci, e in cui sperimentare livelli di percezione plurimi. Di fronte a questa fase “matura” della sua ricerca, che comprende l’approfondimento di temi ricorrenti e l’interesse a nuovi spazi di indagine, abbiamo intervistato l’artista.
Neon, marmo, ferro, plastica: le tue opere sollecitano molto la vista. In che modo il visitatore può “abbandonare gli occhi”?
«L’idea di “abbandonare gli occhi”, che sottintende il titolo della mostra, è evidentemente un richiamo a una possibilità. Non si riferisce al negare l’esperienza visiva dell’opera e il corpo dell’opera. Ciò che cerco di suggerire, invece, è cercare di trovare anche un altro modo per entrare in contatto con le opere. In verità è sempre stato un elemento dell’arte riuscire a nutrire non soltanto l’esperienza estetica e l’evoluzione di un linguaggio, ma anche altre zone dell’esperienza umana. L’idea è proprio quella di cercare di generare un rapporto di consapevolezza con le opere, che trascenda l’esperienza materiale.»
I corpi protagonisti dei tuoi lavori sono sempre in posizione di trance o riposo. Come nasce il tuo interesse per il corpo in questo stato di semi incoscienza?
«I corpi che rappresento nel mio lavoro, negli ultimi anni, sono sempre in una condizione di percezione della realtà “alterata”, nel senso di diversa rispetto allo stato di veglia. La condizione della veglia è quella dove noi ci muoviamo e operiamo nella società in maniera produttiva e più o meno efficiente, sottostando a dei ritmi, a degli spazi e a dei tempi dettati dal mercato e dal consumo. Negli ultimi dieci/dodici anni, anche grazie alla meditazione, ho maturato un interesse per lo stato del sonno.»
Cosa significa per te questo argomento?
«Si tratta di quel momento in cui accediamo a una dimensione spazio-temporale totalmente diversa, che non è e non si relaziona con quella degli altri, ma è unica e irripetibile, di una singola persona. È all’interno di questo spazio – dove le cose, gli eventi, possono collassare, trasformarsi, dilatarsi e muoversi anche in maniera non lineare – che molto spesso noi andiamo a rigenerare la nostra natura di individui. L’arte ha sempre avuto accesso a quella zona al di là dello spazio e del tempo, “trascendente” nell’accezione del termine, come capacità di andare oltre.»
Nella mostra il linguaggio verbale e il linguaggio non verbale si intrecciano. Quale dei due linguaggi è in grado di comunicare meglio oggi?
«Sì, ci sono vari momenti di scambio. Il linguaggio visivo è molto forte e come giustamente lei dice, c’è anche un linguaggio verbale e non verbale. La verità è che secondo me non esiste una di queste due polarità come “unica” o “migliore”, in termini di comunicazione. Esiste invece la possibilità di muoversi all’interno di questo spettro – cioè di non essere binari in questo approccio – e la capacità di generare un campo, un segnale con una banda molto ampia, e di muoverci all’interno di questa banda. Nella mostra ci sono appunto delle sculture al neon, c’è una parte scritta dove il significato poi diventa significante e si trasforma. Queste parole contengono ancora la loro capacità di comunicare un senso attraverso la lettura, ma iniziano a trasformarsi. L’oscillare tra queste due frequenze – e non essere unicamente ancorato a una di queste due – è il tema, l’aspetto importante della mostra.»
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