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In equilibrio sull’apocalisse: intervista a Pamela Diamante
Arte contemporanea
Vola come una farfalla, pungi come un’ape. Così, il 25 febbraio 1964, Muhammad Ali descriveva il suo stile di boxe, durante un’intervista di presentazione dello storico match con Sonny Liston, la sua prima sfida per il titolo mondiale dei pesi massimi. Perfetto sul ring, Ali sapeva calibrare anche il peso delle parole. In questo caso, la frase deve tutta la sua fortuna narrativa alla perfetta compiutezza, non solo semantica ma anche visiva, di ciascuno degli elementi linguistici: una equazione a somma zero, tra volare e pungere, farfalla e ape. Forte, elegante, focalizzato, rapido, in difesa e in attacco, calibrando concavità e convessità, vuoti e pieni, ben saldo sul baricentro ma sempre in movimento, perché interrompere il flusso del ragionamento e dell’istinto vorrebbe dire sbilanciarsi. E questo atteggiamento, che dai round della boxe è facilmente adeguabile ai tempi della vita, può anche descrivere il metodo, agile e immediato, attraverso il quale Pamela Diamante dialoga con la materia per dare forma all’idea.
Nata a Bari nel 1985, Pamela Diamante porta avanti, con coerenza, sincerità e determinazione, un sentito percorso di ricerca che, a partire da una profonda empatia con il contemporaneo, sfocia in varie diramazioni scandite da progetti dai linguaggi eterogenei, dalla scultura all’installazione, dalla fotografia al video. È il flusso del tempo ma esperito in maniera non lineare, transitando tra piccoli eventi, scoperte quotidiane e rivoluzioni tecnologiche, catastrofi naturali e antropiche, richiami e allusioni, tra sensazioni, ricordi, affinità e cronaca. In ogni caso e in qualunque situazione, si tratta sempre di un sottile gioco di equilibri. Dalle onde sonore sotto frequenza che, usate in medicina come terapia per disturbi neurologici, si trasformano in una forza sottile che fa increspare la superficie dell’acqua contenuta in due vasche concentriche, in in-Doser, opera del 2014 e Estetica dell’Apocalisse, serie realizzata tra il 2017 e il 2018, i cui un intero alfabeto viene compitato attraverso una comparazione formale tra fotografie di opere d’arte e di calamità. Fino a Medicea, Pietraforte, Serpentino e Candoglia, serie di opere esposte nel 2018, in cui frammenti di marmo – reperiti da cave in disuso – e fotografie, cartoline e disegni si compenetrano, trovando un poetico punto di contatto nella superficie liscia ed estremamente potenziale della materia, solcata da segni, venature e immagini.
Arruolatasi nel 2002 come volontaria nell’esercito italiano e congedatasi nel 2007, dopo varie missioni in Bosnia Erzegovina e nel Kosovo, Pamela Diamante ha collaborato, in vari momenti, come assistente curatoriale con artisti quali Jannis Kounellis, Hidetoshi Nagasawa, Francesco Arena, Carsten Nicolai e Lazaro Saavedra, nell’ambito di numerosi progetti espositivi in luoghi pubblici e privati e progetti internazionali, come il Padiglione Cuba alla 56ma Biennale di Venezia. Nel 2015 ha vinto il Premio Claudio Abbado per l’Arte e ha esposto al Centro de Desarollo de las Artes Visuales dell’Havana, nell’ambito del Premio Maretti, nel 2016 è stata selezionata per la prima edizione del Museion Prize. Nel 2018 l’ampia personale che ha segnato l’apertura della nuova sede romana della Galleria Gilda Lavia (qui la nostra recensione) e, nel 2020, la partecipazione alla mostra collettiva “Made of Sound”, terza edizione di Performing PAC. In questa occasione l’abbiamo raggiunta, per parlare del suo progetto e farci raccontare meglio la sua ricerca.
L’intervista a Pamela Diamante
In occasione del progetto espositivo del PAC hai presentato un lavoro del 2020, Generare Corpi Celesti – Esercizi Di Stile, che ha visto numerose collaborazioni, per raccontare diversi approcci al cielo. Puoi dirci di più?
«Trasformare il cielo in un immenso cartellone pubblicitario attraverso l’utilizzo di un display orbitale per sponsorizzare i più importanti brand della società dei consumi, questo è il futuro dell’advertising. Se l’antropocentrismo insito nell’uomo ci riserva un futuro del tutto distopico in cui il risplendere di stelle millenarie sarà offuscato da insegne luminose, la privazione del senso di sublimazione derivante dal misurarsi con l’infinito, annullerà anche il rapporto trascendentale nel connettersi con la coscienza dell’esistenza e in questa alterità mostruosa sarà come divenire ciechi d’innanzi l’infinito. Paolo è un ipovedente che a causa di una malattia degenerativa ha iniziato a perdere la vista dieci anni fa, a lui ho chiesto di narrare il ricordo di un cielo stellato ma Paolo il cielo non lo ricorda più perché i ricordi visivi sono immagini che devono essere continuamente alimentate, stimolate, rievocate per continuare ad esistere nella memoria. Se quindi non ha più senso ricordare, non ha neanche senso descrivere un non ricordo. Con il compositore Marco Malasomma, è stata realizzata un’opera corale in cui il racconto doppiato in varie lingue diviene spesso incomprensibile per sovrapposizione. Antonio invece è nato cieco, a lui ho chiesto di rappresentare ciò che nel suo immaginario corrisponde ad un cielo stellato, autonomamente ha scelto il medium pittorico e i colori nero, blu e viola. Dalle prime prove ho riscontrato una forte rassomiglianza con l’astrattismo, l’informale, l’arte gestuale per cui il processo si è modellato su sessioni teoriche e pratiche con lo scopo di perseverare nella ricerca di uno stile. Il risultato sono due grandi tele da 10 metri che nella sala espositiva avvolgono letteralmente lo spettatore. Antonio è andato oltre la nostra immagine mentale di un cielo stellato, rappresentando l’energia dell’universo. Quest’opera è stata pura esperienza e partecipazione e la totalità del suo risultato formale è il mio più grande esercizio di stile».
Spesso, nelle tue opere, fai dialogare condizioni e contesti diversi – antropico e naturale, artificiale e ambientale, micro e macrocosmo ma anche scienza e istinto –, generando una sorta di terza via poetica. Da quali tappe è scandito questo processo di analisi/sintesi?
«Studio molta filosofia, sociologia, mediologia e semiotica che utilizzo come chiavi di lettura per comprendere e interpretare il reale, il quotidiano, le immagini del mondo. In maniera del tutto naturale si genera un rapporto dialogico con le mie grandi fascinazioni per la scienza, la fisica, la geofisica, ecc. mi piace capire l’esatto motivo per cui un determinato fenomeno si sviluppa nel tempo e nello spazio, questo mi porta ad un approccio metodologico estremamente analitico. Sicuramente il mio immaginario si genera dall’incontro di tutti questi fattori».
Fotografia, performance, scultura, immagine in movimento, suono. Nella tua ricerca hai affrontato molti linguaggi e tanti materiali. Come sai di aver trovato quello giusto – o quello sbagliato – per esprimere una idea, un concetto, una suggestione? C’è una tecnica con la quale ti senti più affine?
«È il concetto a scegliere da quale dispositivo simbolico vuole essere rappresentato. Mi interessa mixare i vari linguaggi ma ogni elemento presente nell’opera conserva le sue referenze di senso in quanto portatore di significazioni, per cui la narrazione si serve della struttura interpretativa di questi elementi, creando un impianto concettuale che diventa il rapporto di intermediazione con l’osservatore. Non c’è qualcosa a cui mi sento particolarmente legata, mi piace molto lavorare con la tecnologia ma la pietra è un materiale che ritorna costantemente, sarà per la mia formazione da scultrice; non ho mai voluto creare nuove forme ma esaltare i segni racchiusi all’interno della pietra stessa, interpretarli».
In molti tuoi progetti mi sembra di ritrovare una sorta di fascinazione per il non visto, il non detto, anche partendo da eventi traumatici, cronachistici o epocali e facendo poi rimanere un segno minimale, quasi un residuo narrativo. Come se, a un certo punto, sottraessi qualcosa all’aspettativa del fruitore. Si può parlare di uno strappo, di una cancellatura o di una sovrascrittura?
«Penso che l’opera debba esplicitare un messaggio fino ad un determinato punto, dopodiché creare un’apertura tale da lasciare spazio all’osservatore di applicare il proprio potere immaginifico e interpretativo. L’arte deve portare a delle riflessioni e solo quando si instaura questo meccanismo per me l’opera è compiuta».
Dopo diversi mesi di lockdown e di sospensione dello spazio e del tempo – concetti sui quali peraltro hai lavorato in diverse occasioni – stiamo ritornando a quelle che sembrano essere le coordinate ante Covid-19. È proprio tutto come prima? La rivoluzione o l’apocalisse sono già passate e non ce ne siamo accorti?
«Ciò che abbiamo vissuto farà storia, ne siamo stati attori e testimoni ma questa storia non è ancora finita. Credo che ci siano state tante piccole rivoluzioni soggettive per chi ha saputo affrontare positivamente questa esperienza, ma c’è tanto ancora che deve emergere e non è ancora il momento per poter analizzare qualcosa di così complesso».
Le informazioni e le modalità della loro diffusione e ricezione sono al centro di diversi tuoi lavori. Quanto e come ha influito e influirà questa condizione di bulimia massmediatica, che è letteralmente esplosa negli ultimi mesi, nei tuoi progetti futuri? E sulla nostra vita quotidiana?
«Il filosofo della catastrofe Paul Virilio aveva predetto che i mezzi di informazione sarebbero stati in grado di generare una “sincronizzazione dell’emozione collettiva nel paradosso dell’individualismo di massa”, in cui “il movimento panico diventa l’accelerazione della realtà che distrugge il nostro senso dell’orientamento – in altre parole la nostra visione del mondo”. Penso che su scala planetaria il senso di incertezza nel futuro e l’assuefazione data dal continuo bombardamento di informazioni abbiano portato giorno dopo giorno ad un’assenza di stupore nei confronti della realtà. Questo è un aspetto su cui rifletterò a lungo».
Nel tuo percorso, hai partecipato a diverse residenze, da Teheran a Buenos Aires. C’è qualche altro luogo che vorresti esplorare e dove vorresti lavorare?
«Il turista consuma il proprio tempo, il viaggiatore scrive la sua storia. Il viaggio è da sempre uno strumento che mi permette di contemplare il mondo, mi piacciono quei luoghi con codici socioculturali totalmente differenti dai nostri e che per essere compresi ti spingono ad abbattere quei finti parametri nozionistici attraverso i quali ci rapportiamo alla realtà e con cui strutturiamo i nostri pregiudizi. Non è certo il momento per programmare la prossima avventura ma ci sono ancora tanti luoghi che mi attendono».