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Incontrando Carmelo Bene, attraverso le carte: intervista a Rä Di Martino
Arte contemporanea
Siamo nel cosiddetto “tacco” dell’Italia, a Lecce, precisamente nel Convitto Palmieri. All’interno di quest’ultimo, un archivio ad hoc raccoglie e racconta anni e anni di attività di un uomo che ha fatto la storia del teatro nostrano. Uno che è stato regista, filosofo, ma soprattutto attore che il palco se lo mangiava: Carmelo Bene. Dal mare Adriatico a quello di documenti. A questo punto entra in scena un’artista che, preferendo la profondità alla superficie, ha scelto d’immergersi nell’Archivio Bene, fino a instaurare, col decano del teatro, un diretto rapporto di reciprocità creativa. Un’artista che, col potere disincantato di parole, suoni e immagini, ha una certa dimestichezza: Rä Di Martino (Roma, 1975). E poi arriviamo noi, desiderosi d’incontrare colei che a sua volta ha “incontrato” il grande attore per dar vita al progetto video-installativo Là dove muore, canta. Fino al 3 novembre, presso la Torre Matta di Otranto, in una mostra curata da Luigi De Luca e Brizia Minerva.
Penso che relazionarsi con un archivio sia un’esperienza di per sé affascinante, poiché rappresenta una forma di contatto/apertura verso qualcuno/qualcos’altro. E tu, dati i tuoi trascorsi artistici, di archivi te ne intendi. Quale è stata la prima sensazione che hai avvertito nel mettere le mani in quello di Carmelo Bene?
«Sono stata varie volte all’Archivio di Carmelo Bene che si trova al convitto palmieri in due sale molto belle, con una vista anche molto bella su Lecce. Al contrario di altri archivi con cui mi sono trovata a confrontarmi questo era, almeno in quel momento, letteralmente un insieme di scatole piene di libri, quaderni, foto, cassette, nastri, betacam. Senza però nessun tipo di catalogazione o criterio utile.
Per la precisione 120 scatole, anche molto belle da vedere nel loro insieme, però poco fruibili, poco disponibili alla lettura di un pubblico più ampio o semplicemente meno determinato di un detective. Di conseguenza è stato piuttosto emozionante trovarsi ad aprire scatole piene di cose da scoprire, di matasse da dissipare e fili, rimandi, da seguire.
Poi in un archivio si vivono ancora aspetti fisici, concreti, da non sottovalutare: tanta polvere, nastri difficili da vedere, documenti ingialliti, scritture sbiadite o indecifrabili, pesi da sollevare. Oltre a questo ci sono aspetti emotivi con cui fare i conti. Nel caso di una figura articolata e generativa come Carmelo Bene, tutto ciò che rimane è motivo di curiosità ed interesse. Proprio questi però vanno frenati per assecondare anche delle esigenze pratiche più stringenti, più importanti o pertinenti nello specifico all’andamento del progetto.
Altri archivi su cui ho lavorato, come quello del piccolo teatro di Pontedera alla fine erano principalmente fotografie, altrettanto anche quello ben più piccolo sul Piper di Torino. Il rapporto era più facile, proprio perché a monte c’era probabilmente la semplice intenzione di suggellare dei momenti per una visione a distanza di tempo. Nel caso dell’archivio Bene si percepisce piuttosto del materiale che non vuole cristallizzarsi, non si vuole fermare nel tempo, che in qualche maniera è sempre in divenire, aperto».
Per la videoinstallazione, Là dove muore, canta, ti sei principalmente affidata alle pagine di due taccuini. Un taccuino, diversamente da altri documenti archivistici, è un oggetto estremamente personale. Porta a relazionarsi con la scrittura, qualcosa di molto intimo in tutti i sensi. Sbaglio a pensare che proprio questa sia la chiave di volta del tuo progetto?
«Credo di essere stata in qualche maniera fortunata nel trovare questi due quaderni, in cui Bene prese degli appunti -anche molto ordinati- per fare uno spettacolo teatrale ispirato a Dracula. In esso scrive parecchie note di regia, stralci di sceneggiatura con vere e proprie battute, citazioni e ispirazioni. Quindi è una scrittura ibrida, da poesia a note tecniche. Appunto un materiale solido ma aperto oltre che inedito, che in qualche maniera mette a proprio agio rispetto ad una possibilità di traduzione».
In quei taccuini poi, Bene ha abbozzato “Il vampiro”, pièce incentrata sulla figura di Dracula. Affascinante direi, no?
«Be’ su una pagina annota: “Esistono due ruoli principali in questo ‘VAMPIRO’: Il vampiro e la sua vittima per esempio… Ma in realtà si tratta di 4 ruoli in 2: il personaggio-vampiro e il suo autore, la sua vittima fondamentale e l’attrice. Questo entrare ed uscire d’improvviso dai propri ruoli, e cioè dalla rappresentazione ortodossa e sempre squallida, contribuisce al fascino dell’argomento, dell’intreccio, non per questo complicando la passione dello spettatore, ma al contrario, esaltandola, poiché qui l’argomento per eccellenza è appunto il Fascino”.
Comunque sì, è molto affascinante perché è un un argomento perfetto ad oggi. In un certo senso lo è stato anche per me in termini di ispirazione e poi formalizzazione, perché il vampiro è per Bene un non-morto un’entità chiamata a tornare alla vita o a resistere alla vita stessa e ai suoi andamenti, esattamente come un archivio ed i suoi contenuti».
In Là dove muore, canta ti sei fatta largo nel lavoro di Bene, rielaborando – e finalizzando in un certo senso – un suo inedito spettacolo teatrale. Non sei stata spettatrice insomma, ma hai cercato una sorta di “interazione” con l’attore. L’aver lavorato a “quattro mani” – concedimi il termine – con Bene, cosa ti ha lasciato a livello personale e professionale?
«È una domanda difficile, sicuramente ogni volta che ho lavorato ad un archivio in un certo senso mi sono sentita di lavorare a quattro mani con il passato, sia esso impersonificato o inteso in maniera più lata. C’è sempre interazione con uno sfasamento temporale, che è forse la cosa più interessante. Probabilmente esiste questo interesse a dare gli archivi in mano ad artisti visivi o, viceversa, interesse da parte di artisti e registi a lavorare su degli archivi perché c’è bisogno e necessità di farli rivivere in modo non didascalico, renderli degli strumenti di narrazione. In fondo anche in questo caso ho preso un testo e lo ho animato secondo i miei strumenti e le mie sensibilità.
E’ una pratica comune se si pensa al cinema quando traduce sul grande schermo romanzi o libri editi in precedenza. In questo caso poi c’è stato qualcosa di ulteriormente emozionante nel cercare di farlo interpretare dalla sua immagine, da una sua interpretazione digitale. Da una parte la concretezza dei taccuini, della parola vergata a mano su carta, dall’altra una messa in scena composita: un’animazione 3D dell’autore, una voce interpretata e recitata da Lino Musella e la stessa elaborata -riattivata- da Simone Pappalardo per renderla suono».
Parallelamente alla videoinstallazione, presso il Fondo Carmelo Bene di Lecce presenti una serie fotografica incentrata sempre sulla figura dell’attore. Matrice d’archivio a parte, sono progetti separati, oppure uno ha influenzato l’altro?
«All’interno di un progetto faccio fatica a distinguere le possibili declinazioni che questo possa assumere. Non credo nemmeno si tratti di influenza, più che altro di organicità di intenti, più strumenti volti ad un’unica narrazione».