Una mostra come un corpo post-organico, racconto di un ecosistema culturale mutevole e trasforme: “Incorporea”, ospitata dagli spazi romani di Basement Roma, si presenta come un’opera in più atti, una struttura espositiva dinamica che asseconda la sedimentazione delle opere nel tempo. La sede espositiva di CURA magazine si conferma come osservatorio sempre attento sulla scena artistica internazionale, e in questo progetto espositivo porta a Roma artisti inediti nella scena capitolina: Gina Folly, Hannah Levy, Ebecho Muslimova, Berenice Olmedo, Athena Papadopoulos, Jenna Sutela, che in diverse occasioni hanno partecipato al percorso editoriale della rivista. Ogni mese, per il corso di quest’anno, l’assetto di “Incorporea” andrà modificandosi grazie alla rotazione e all’aggiunta di diverse opere, strutturando la narrazione di un corpo come assetto eterogeneo e a tratti robotico, che potenzia il suo nucleo originario con un sistema di protesi e impianti.
Grande protagonista della rassegna, il corpo è una presenza che si vivifica tramite la sua assenza, facendosi manifesto, particella organica, suono, memoria. Jenna Sutela contamina la ricerca poetica con lo sviluppo di un immaginario digitale che origina da un elemento organico primordiale, batterico: il linguaggio verbale, apparentemente lineare, è manipolato attraverso un sistema algoritmico che lo converte in discorso straniante. La presenza allegorica del corpo è riposizionata da Hannah Levy nell’inorganico: i suoi auricolari passano da strumento tecnologico funzionale a elemento biologico, un tessuto la cui natura molle e sensuale, pur conservandosi artificio plastico. Avvolge il video di Levy la carta da parati di Ebecho Muslimova, dove il corpo si fa pattern nella ripetizione di un nucleo figurativo ossessivo, ironico, ambiguo. Il test di gravidanza bronzeo di Gina Folly si presenta come un interrogativo perpetuo, che congela un corpo nel farsi della sua trasformazione, traghettando una condizione epifanica verso una sospensione senza uscita.
Berenice Olmedo allude al corpo mediante l’assemblaggio di oggetti trovati e strutture polimateriche, portando il corpo stesso ad un livello di alta disturbanza, in cui le funzioni vitali collassano su loro stesse. Le opere di Athena Papadopoulos sono sedimentazione di oggetti, umori e suggestioni che si conglomerano in una fisionomia respingente, come il residuo di uno scolo di materiali defluiti e accorpati da un continuum mnemonico.
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