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Interaction Napoli da Made in Cloister, arte contemporanea oltre gli spazi
Arte contemporanea
La manifestazione biennale Interaction Napoli, giunta alla sua seconda edizione con la mostra dedicata a l’Altro e l’Alterità, The Other and Otherness, visitabile fino al 21 settembre 2024 presso gli spazi della Fondazione Made in Cloister, esplora le problematiche della contemporaneità legate ai fenomeni migratori, riflettendo sulle complessità delle relazioni tra diverse culture, tradizioni e religioni, attraverso l’interazione tra media e linguaggi presentati da artisti provenienti da tutto il mondo. Nel catalogo, il curatore del progetto espositivo, Demetrio Paparoni, pone l’accento sul rapporto con l’estraneo, inteso, più che come straniero, come qualcuno che ha abitudini culturali molto distanti dalle nostre. «Questo atteggiamento – scrive Paparoni – ha prodotto schiavitù, segregazione razziale, ghetti, muraglie e fossati, e non può che favorire discriminazioni e ingiustizie. Di contro, accogliere il migrante significa vedere nella diversità̀ una ricchezza piuttosto che una minaccia».
Al centro del chiostro di Santa Caterina, l’energia scorre nell’ installazione aerea US2-Migration dell’artista coreana Jung Hyreyun. L’opera attraverso un software che rileva i cambiamenti meteorologici si attiva creando disegni luminosi nello spazio, un gioco di alert climatico che diventa espressione allegorica di uno squilibrio sociale globale. L’abuso e il transfert di lavoro che stiamo affidando alle tecnologie si rispecchia nella gigantografia di un robot giocattolo di Andres Serrano, KOYoshiya High-Wheel Robot, della serie fotografica The Robots (2022). Il rischio è come sempre la perdita del primato, dell’assoluto controllo dell’intelligenza umana su quella artificiale che in un futuro prossimo potrebbe acquisire più autonomia di quanto pensiamo. «Gli esseri umani – dice Serrano – potrebbero diventare quello che i nativi americani sono stati per i conquistatori del Nuovo Mondo». L’avvento di un possibile neocolonialismo si preannuncia nell’arazzo The Spaces of the Other, Tears become Oceans di Cian Dayrit, in cui l’artista mostra gli effetti devastanti che il colonialismo ha avuto nel suo Paese, le Filippine, dove la popolazione è costretta ad emigrare. «Questo sistema – che l’artista definisce Capitolocene – è dominato dalla logica del capitalismo monopolistico contemporaneo in cui l’Altro è un prodotto (Edward W. Said), lo spazio è astratto (Henri Lefebvre) e la natura è svalutata (Jason W. Moore)».
L’interazione è al centro dell’opera di Zehra Doğan che porta le tradizioni curde della danza come espressione di unità difronte alle sofferenze della guerra: «Ci prendiamo sottobraccio tutti insieme e danziamo seguendo la stessa direzione. Se qualcuno sbaglia un passo compromette il ritmo di tutto il gruppo». Difficile non restare imbrigliati con gli occhi nella grande rete di rame Aleaciones con memoria de forma: Gasa entrelazado di Ximena Garrido Lecca. Un lavoro nato sugli altopiani peruviani, dove si trovano le miniere di rame, per dissociarlo dall’utilizzo che se fa nell’industria e restituirlo alle pratiche artigianali.
Mentre lungo il portico a sud del chiostro, si confondono le identità graficamente modificate come patchwork disumanizzati del grande collage con stampe digitali Cicada dell’artista cinese Yue Minjun, ci si sofferma, scrutandolo, davanti all’autoritratto Lol di Morten Viskum, nei panni di Vladimir Putin seduto da solo a un tavolo in compagnia di un teschio e una bottiglia di Vodka.
Questo senso di solitudine si avverte in maniera diversa nell’opera The Zong (Resurrection) di Vanni Cuoghi che interagisce con la sottostante Welcome to Europe di Gianluigi Colin realizzata con il tessuto, intriso di inchiostri blu, usato per pulire le matrici di stampa, in questo caso quello usato per il quotidiano uscito dopo la strage di Steccato di Cutro, quando un’imbarcazione con a bordo circa duecento persone si spezzò in due a pochi metri dalla riva. L’opera di Cuoghi riprende un’altra tragedia in mare, quella che colpì la nave negriera Zong nel 1781 al largo delle coste giamaicane. Secondo le notizie pervenuteci i proprietari della nave, dei commercianti di Liverpool, davanti l’esigenza di alleggerire il carico, gettarono in mare ben 142 schiavi come se fossero delle merci. L’episodio provocò l’indignazione pubblica quando gli autori del disastro, chiesero un risarcimento per la perdita del “carico”.
In mare prende vita anche la videoinstallazione Avviso ai naviganti di Sergio Fermariello, posizionata sotto l’arcata del portico del chiostro. Obbligando il visitatore ad alzare lo sguardo si incontrano, sotto una luce zenitale quasi aliena, le esuli figure di uomini stilizzati, le stesse che l’artista aveva fatto galleggiare nel 1999 lungo le coste del Tirreno e nel 2004 e sul Molo Pier 17 di New York.
Nell’orchestra di luci e visioni che albergano la Biennale, infine, lo sguardo si ferma sull’opera silenziosa di Veronica Bisesti che sembra assorbire tutta l’energia nel suo buio avvolgente. Siamo il passato oscuro del mondo #9 ci richiama a una dimensione quasi dantesca, dove ad attirarci a sé sono i due occhi che spiccano tra gli arbusti di una folta selva notturna. «Lo sguardo che scruta lo spettatore – dice la Bisesti – diventa monito per la coscienza collettiva, in un mondo in cui il rapporto armonioso con lo spazio naturale va sempre più a scomparire».
Lasciando la principale location, sede della Fondazione, il progetto espositivo si estende in altri tre storici luoghi di Porta Capuana: il Parco di Re Ladislao, con un’altra installazione dell’artista Ximena Garrido-Lecca, il chiostro del Liceo Artistico di Napoli, che ha accolto le sculture corali dal forte impatto visivo dell’artista cinese Liu Jianhua, e il cortile dell’Hotel Palazzo Caracciolo con l’installazione di vasi antropomorfi Famija di Daniele Galliano.