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The Underground: intervista a Cent Seize, che si muove fra contrasti di luci e ombre
Arte contemporanea
Cent Seize, al secolo Elia Bianchini, è un giovanissimo artista di cui sentiremo molto parlare. Le sue opere, immerse in una luce diafana, narrano storie di vite spezzate che vengono dalla provincia. I suoi soggetti preferiti sono ballerine, prostitute, spiantati e alcolisti. I modelli sono rintracciabili in quelli del Die Brücke – una delle Avanguardie tedesche di inizio Novecento più radicali – con un’attenzione alla grafica e alla linea espressiva di una pittura dai tratti aspri e dai contorni poderosi e affilati, che dà vita a immagini dure e molto efficaci nel loro potente impatto visivo. Ce ne parla meglio lo stesso Cent Seize, in questa nostra intervista per la serie The Underground.
Cent Seize: l’intervista
Da dove arriva l’ispirazione per le tue opere?
«Ricordi, notizie, musica, storie di quartiere, leggende metropolitane, film, barzellette, spettacoli, esperienze e luoghi che ho vissuto. Il mix di tutto questo, crea una mia visione personale dei fatti e degli eventi. Un luogo dove scelgo quello che succede, gli sfondi ed i colori, come se fossi un regista. Soprattutto, fantastico tantissimo su che tatuaggi avrebbero potuto avere i personaggi che più mi colpiscono delle storie in cui inciampo o quelli che creo io. Disegno cosi la maggior parte dei miei progetti per i flash. Mentre i progetti su richiesta del cliente nascono in primis coprendolo con il mio immaginario. Come se diventasse uno dei personaggi dei miei quadri, e con l’assoluto rispetto del suo vissuto e di cosa vuole trasmettere. Riuscire a far emergere sulla pelle il messaggio che voleva far uscire all‘esterno, tanto era già dentro di lui. Come se le persone reali e i miei personaggi si ispirassero a vicenda, vivendo in questo paradosso dove non si capisce chi nasce per primo (l’uovo o la gallina)?».
Come vivi il tuo rapporto con la provincia? Quanto influisce sulla tua produzione artistica?
«Prima il mio rapporto con la provincia era “l’uscire dal ghetto” dei film americani. Ora, che è passato qualche anno dal mio primo passo fuori dallo stivale, vedo la cosa in maniera meno rigida, sicuramente la provincia non è il posto dove voglio stare, ma ho riscoperto quanto amo la tradizione e il folklore. Ogni tanto ho bisogno di ritornarci, respirare quell’aria di mare, mangiare quel cibo e far riaffiorare i ricordi. Raccolgo ogni aspetto, positivo o negativo, per introdurlo nei miei lavori. Guardo la provincia come si guardano le commedie italiane. Mi fa sorridere. Tornare mi aiuta sempre a riorganizzare le idee e fare un’analisi sui miei lavori per poi ripartire ancora più motivato a spingermi oltre. La provincia è dunque per me il posto che ti logora se ci resti, ma che ti manca quando sei lontano».
Quale è il rapporto tra produzione su supporti vari e quella su pelle?
«Lo studio dei progetti per pelle e quelli per tela sono molto differenti allo stato pratico, molto simili invece a quello ideologico. Sulla pelle cerco di lavorare capendo quale sia la soluzione migliore per fare invecchiare il mio lavoro con chi lo porta, alcuni li ridisegno decine e decine di volte e quando finisco un disegno vorrei tatuarlo subito, se passa troppo tempo quasi mi sembra di indietreggiare, avendo già costruito qualcosa di nuovo nel mentre. Nel tempo ho sperimentato diverse opzioni. Riguardo al metodo di pittura invece, credo sia molto più naturale non dovendo rendere conto a nessuno, difronte a quel supporto sono molto più istintivo, a volte cerco di non prendermi troppo sul serio, di essere più leggero. Non preparo quasi mai nulla prima, lascio molto spazio all’improvvisazione. Sto cercando di fare cose più veloci, meno patinate, voglio un gesto più crudo, più sporco. Mi sto concentrando su quello».
Quali sono i tuoi modelli pittorici?
«Incontrai il nonno di un mio grandissimo affetto, venuto dalla Polonia a trovare la parte della famiglia che sta in Italia, un giorno era a petto nudo per casa e vidi i tatuaggi, mi abbagliarono, inspiegabili, non avevo mai visto una cosa del genere. Anni dopo mi capitò sotto gli occhi un’estetica davvero simile, quella dei tatuaggi francesi appartenenti a marinai, soldati o quelle categorie di emarginati: carcerati/criminali e prostitute. L’estetica di quelle foto, quei vestiti, quei volti mi spinse a riguardarmi i grandi pittori. Le donne e i loro visi raffigurati in quei tatuaggi, mi hanno tirato dentro. Modelli pittorici? A bruciapelo ti direi Modigliani, Grosz, Matisse, Chagall, Picasso, Cèzanne, Toulouse-Lautrec ma chiaramente c’è ne sono tanti altri, anche contemporanei, cosa che credo inevitabile. Chi si espone sta creando un precedente che sarà d’ispirazione per qualcun altro. Mi piacciono molto le locandine dei concerti, per esempio quelle della musica jazz o punk quelle del cinema ’40, ’50, ’60, ‘70. Sono un appassionato delle forme. Mi alleno nel prendere le dovute distanze quando guardo, per paura di essere troppo influenzato. Penso che il goal per tutti, sia quello di trovare la propria via, rendere lo stile più unico possibile e trasmettere veramente il proprio pensiero primordiale (ruvido e non influenzato da schemi già scritti) o semplicemente essendo onesti coi noi stessi e di mettere su quel supporto le nostre visioni più pure. Chiaramente è un procedimento che richiede tempo, scontri e cadute. Ora sento di dovermi approcciare molto istintivamente alla tela, cercando di isolarmi il più possibile e lavorare in maniera molto più’ spontanea e sincera».
Le tue prime opere sono rappresentazioni di figure femminili lasciate in locali ed alcuni luoghi della città di Liverpool, perché?
«Le figure femminili dell’inizio sono figlie della fine di una grande e tortuosa storia d’amore. Cominciavo a sperimentare con il tatuaggio e basicamente anche nei flash raffiguravo sempre soggetti che nella mia testa erano relazionati all’amore. Come se solo chi avesse veramente provato amore o sofferto per esso potesse riuscire a portare quei tatuaggi, come se fossero cicatrici nere delle conseguenze dell’amore. Poi provando a dipingere, cominciai a raffigurare donne, perché una donna mi fece soffrire. Era un grande sfogo, e volevo provarle quanto valevo, in questo modo. Raffiguravo delle donne molto sofferenti con queste espressioni malinconiche perché nella mia testa quelle donne stavano soffrendo a causa mia, come se avessi io spezzato il loro cuore, o perché rinchiuse in quella bi-dimensione non potevano raggiungermi. Mi faceva sentire importante e pensavo che un giorno una donna come quelle che dipingevo l’avrei trovata. ma non l’avrei mai fatta soffrire…l’avrei amata. La maggior parte raffigurate nude, come quando in amore ti metti in gioco al 100%. Non avrei mai voluto che una donna in carne ed ossa soffrisse come soffrivo io in quel momento, per nessuna ragione. Liverpool è una città che mi ha dato tantissimo, mi ha fatto crescere e dove tutto bene o male cominciò. Quando è stata ora di lasciarla, volevo ricambiare. I supporti al tempo non erano mai tele ma qualunque supporto più o meno adatto che trovavo per le strade della città, quindi dovevano ritornarci. Ne legai una ai Docks, sul parapetto che ti dividono dalle acque del Mersey, mi piaceva pensare che sarebbe stata li ad aspettarmi. Altre invece, fuori dalle porte dei bar prima che aprissero, sperando che venissero accolte dentro. Penso siano luoghi dove, possono succedere tante cose che possono farti svegliare da quello stato di trans\tristezza e ci puoi disinfettare le ferite del cuore e riempire dei vuoti, almeno momentaneamente, mentre rifletti come reagire, e quelle ‘’mie donne’’ ne avevano bisogno. Chissà che fine hanno fatto».
La tua vicenda artistica ha toccato Liverpool, poi Brooklyn e infine Barcellona. Come hai vissuto da artista queste tre città? Quali differenze hai riscontrato con il mondo dell’arte italiano?
«Diciamo che sono e sono sempre stato un outsider del mondo dell’arte. Liverpool è stata la mia prima tappa. I primi veri esperimenti con i tattoo e con i vari supporti nacquero lì. Al tempo ero sempre dentro vari ristoranti per lavoro, facevo dei turni davvero pesanti, dormivo pochissimo e la mia produzione era molto limitata, ma in compenso ho avuto modo di fare tesoro di esperienze e personaggi. Brooklyn è stata la città che mi ha dato più soddisfazioni. Cercavo di fare tutto, mi sembrava di avere un’energia sovrannaturale, riuscivo a vivere al massimo ed a produrre moltissimo. Essendo appena arrivato e non conoscendo nessuno, ho preso davvero consapevolezza di ciò che volevo fare ed ho iniziato a concentrarmici molto. A volte sono andato a esporre i quadri per strada a Washington Square e alla fine sono riuscito a comparire nel primo numero di questo magazine, NAUSIKAE, che raccoglieva il lavoro di più ragazzi, con nove dipinti, e riuscendoli a tenere appesi la sera del release party, nella Superchief Gallery di New York. Un piccolo primo passo. A Barcellona invece devo dire di essere riuscito a tatuare abbastanza. Nonostante il lavoro nella ristorazione, il virus, lockdown e restrizioni varie. Mi sono chiuso e concentrato sullo stile, cercando di evolvermi il più possibile, continuando nella mia ricerca personale. Forse, solo ora che sono a casa in Italia che riorganizzo e finalizzo alcuni lavori, dico: finalmente ho trovato il punto di partenza sono impaziente di mettermi in gioco veramente».
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
«Sicuramente di continuare a muovermi per le città e collezionare. Sono alla ricerca di un posto dove poter avere base, trovare uno studio dove poter migliorare al fianco di esperti del settore, riuscendo a incrementare il lavoro con il tatuaggio così da poter lasciare una volta per tutte secondi lavori e iniziare a “guestare” in diverse realtà e città cosi da vivere in viaggio e arricchirmi sempre di più. Continuare la mia ricerca stilistica e riuscire ad introdurmi anche nel settore dell’arte con i miei dipinti. Mi piacerebbe esporli. L’obbiettivo è quello di riuscire a relazionare il tatuare e il dipingere, creando una perfetta armonia e un metodo di lavoro che possa funzionare su pelle al 100% con un gesto però che definirei maggiormente pittorico».
La biografia
Elia Bianchini è nato a Pesaro il 17 aprile 1996 ed è cresciuto a Riccione. Fin da bambino mostra un forte interesse per il disegno e durante gli studi al liceo artistico di Pesaro conosce e si appassiona al mondo dei graffiti e della calligrafia. Per anni ha esplorato questi mondi, fino a quando un amico della stessa squadra di graffiti, già appassionato di tatuaggi, gli ha mostrato un libro su criminali, marinai e tatuaggi militari. Ha così iniziato a sperimentare questa tecnica su amici e conoscenti. Dopo aver terminato gli studi a 19 anni (2015), ha deciso di trasferirsi a Liverpool (UK) in cerca di fortuna, cambiamento e nuove idee. Trasferitosi successivamente negli Stati Uniti ha venduto alcuni pezzi al Washington Square Park. Si è trasferito a successivamente a Bushwick (Brooklyn) dove ha partecipato alla prima edizione autoprodotta della rivista Nausikae esponendo i suoi dipinti sui muri del Superchief Gallery di New York. Tornato in Europa ha soggiornato un anno a Barcellona, ora, tornato temporaneamente in Italia, continua qui la sua ricerca artistica.
“L’artista espressionista trasfigura così tutto lo spazio. Egli non guarda: vede; non racconta vive; non riproduce: ricrea; non trova: cerca”, Kasimir Edschmid, 1917.
Per le altre puntate di The Underground, la nostra guida all’esplorazione dell’arte diffusa al di là dei circuiti convenzionali, per scelta o per caso, potete cliccare qui.
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