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Strategie di riappropriazione dell’abitare, secondo Ugo La Pietra
Arte contemporanea
Al TreviLab Centro Trevi di Bolzano, Ugo La Pietra porta il suo lavoro di ricerca cinematografica e di sperimentazioni audiovisive, per la prima volta al centro di una mostra. Il progetto espositivo “Ovunque a casa propria” è a cura di Manuel Canelles e, promosso da Spazio5 artecontemporanea, si è avvalso della collaborazione di diverse realtà culturali e d’istruzione della città di Bolzano. Presenti anche le videoinstallazioni di Lucio La Pietra.
Di portata internazionale, prima antologica di questo tipo, la mostra prende il nome da uno degli slogan più celebri di Ugo La Pietra. Ad accompagnare il progetto espositivo nel corso della sua durata, anche performance, happening ed eventi che coinvolgono altri artisti. Oltre a,una serie di laboratori sulla scia dell’esperienza didattica e pedagogico-artistica degli anni ’70, che ha visto tra i protagonisti proprio Ugo La Pietra con le sue azioni performative.
Opere, film, foto e installazioni volte a rompere e decodificare la “realtà imposta”, criticata costruttivamente dall’artista. In esposizione, uno tra i suoi film più conosciuti: La riappropriazione della città. In quest’opera vengono messi in discussione lo schema urbano della città e la relazione che con questo ha l’uomo che lo abita. Con un connubio di azione sociale e pensiero politico, «La Pietra permette di riconsiderare il nostro approccio alla manifestazione estetica, alla relazione con l’alterità, e ricalibrare quei fenomeni che sottendono all’idea di spazio come attesa, architettura e oggetto come emblemi di ascolto, senza i quali, ci piace pensare, non potrebbe esserci partecipazione». Architetto, designer, teorico, artista, Ugo La Pietra ci ha raccontato qualcosa di più sulla mostra “Ovunque a casa propria” e sulla sua opera, in questa intervista.
Questa mostra al Centro Trevi di Bolzano si concentra sulla ricerca cinematografica e sulle sperimentazioni audiovisive della sua produzione artistica. “Ovunque a casa propria” è un titolo che riconduce direttamente a numerose esperienze della sua ricerca, durante la quale altrettanto numerosi sono stati i mezzi espressivi da lei impiegati. Quali sono state le suggestioni o le curiosità che l’hanno spinta verso l’audiovisivo e più in particolare verso l’utilizzo del mezzo cinematografico?
«La mia attitudine, quasi da antropologo, a guardare l’ambiente in cui viviamo e operiamo, posso dire che probabilmente è stata la spinta che mi ha mosso verso lo studio dell’ambiente e dei comportamenti degli individui. Analisi, rilevamenti, decodificazioni, che ho osservato usando quasi tutti gli strumenti del rilievo (disegno), e l’uso di foto e di filmati. Il cinema quindi è stato il mezzo più completo per tutte le mie “osservazioni” e quindi anche tutti i film che sono nati dopo queste analisi sul territorio. Film che sono stati collocati all’interno del movimento “Cinema d’Artista” promosso e divulgato da Vittorio Fagone».
“Abitare è essere ovunque a casa propria”, da qui il titolo di questa esposizione. Cosa vuol dire per lei questo “Ovunque a casa propria”?
«Ovunque a casa propria è la contrazione dello slogan che ho usato fin dagli anni Sessanta, che allude al superamento della barriera che separa lo spazio privato dallo spazio pubblico».
La riappropriazione della città si apre così: “Nella periferia della città, proprio dove il sistema è meno efficiente, è più facile rilevare le tracce di un comportamento che è aspirazione alla riappropriazione dell’ambiente, attraverso l’espressione di un desiderio represso di attività creativa che si manifesta concretamente in una certa modificazione del territorio”. Periferia della città, riappropriazione dell’ambiente, desiderio represso di attività creativa, modificazione del territorio: da questi elementi scaturiscono numerosi spunti di riflessione. Cominciamo dal primo, come visualizza oggi il contesto della periferia della città come luogo di un’azione legata all’arte?
«Oggi, come ieri, l’arte si occupa troppo poco dello spazio urbano. Ma non è solo l’arte, anche il design e l’architettura non hanno mai avviato veramente un processo culturale (riflessione e progetto) per rendere più “abitabile la città”, avendo una particolare attenzione per la periferia che è un territorio in continua trasformazione. L’arte per il sociale, di cui ci sono state molte operazioni condotte dalla generazione che ha operato negli anni Settanta, oggi si è ridotta (nel migliore delle ipotesi) alla “pittura murale”».
Riappropriazione dell’ambiente. Mi viene in mente una foto in bianco e nero che vidi nel 2018 nella mostra “Istruzioni per Abitare La Città” al CIAC di Foligno. “Istruzione #10, Sulla panchina, 1972. Decodificare lo spazio imposto. La panchina è un osservatorio”, si leggeva nella didascalia. In foto, due uomini di spalle su di una panchina, nel mezzo di una distesa d’erba, sulle loro schiene scritto in bianco “A+B”. In basso: “Cerchiamo la forma che nasce dalle nostre esperienze invece che dagli schemi imposti”. Mi ricollego a La riappropriazione della città, in cui, sul finire, lei dice: “I luoghi in cui viviamo ci vengono continuamente imposti, in realtà lo spazio in cui operiamo può esistere solo come modello mentale che viene modificato continuamente dall’esperienza”. E qui entra in gioco, in qualche modo, anche la modificazione del territorio. Dagli anni ’70 a oggi, il modo di vivere lo spazio e relazionarci con esso è cambiato tantissimo, per gli artisti, per il pubblico, per gli uomini. Secondo lei, siamo riusciti in qualche modo a riappropriarci dell’ambiente, modificando il territorio, in un mondo in cui l’esperienza si è traslata sempre più nel mondo virtuale? Inevitabilmente, penso alla sua frase in La casa telematica: “La telematica propone l’avvento di una nuova sfera sensoriale dove la dimensione dell’informazione della dimensione e della spettacolarità coinvolgeranno tutto e tutti”.
«Oggi, l’ho scritto più volte, viviamo “affollate solitudini”. Troppi abitanti delle nostre città vivono il disagio di essere soli, di vedere sempre meno unito il nucleo familiare, di assistere allo smantellamento delle relazioni di quartiere (con la crescita di numerosi gruppi sociali di altre culture, spesso non integrate) e quindi sempre più alla ricerca di occasioni per stare insieme. La riappropriazione dell’ambiente di cui ho sempre parlato, è un processo che dovrebbe portare l’individuo o il gruppo sociale urbanizzato ad espandere la propria personalità, a dare scarso valore (come succede nello spazio privato) allo spazio collettivo in cui si vive. Purtroppo la città non è cresciuta con questa intenzione e quindi oggi la nostra città è diventata un “ristorante a cielo aperto”. Ma la città è fatta anche di cultura, informazione, spettacolo, divertimento, luoghi di decompressione…».
E il desiderio represso di attività creativa? Siamo più repressi oggi o negli anni Settanta?
«Il desiderio represso di attività creative nasce da un desiderio innato dell’individuo, che però non riesce ad esprimersi in rituali collettivi; le città che nascevano durante l’Impero Romano si basavano su circhi, teatri, anfiteatri, terme, fori…tutti sazi costruiti per la collettività che doveva vivere una dimensione ludica nella città. Oggi l’unica attività collettiva urbana si chiama “movida” e si sviluppa nel modo meno armonioso possibile con lo spazio che la accoglie».
Architetture, design, teorizzazioni, operazioni artistiche. Dalla sua opera, emerge trasversalmente l’attenzione alle parole – spesso in forma di enunciati – che accompagnano le sue immagini in vari formati. “Io credo che La Pietra sia soprattutto un poeta”, diceva Daverio in occasione del Palermo Design Week del 2009. In effetti, pensare la panchina come un osservatorio è un gesto poetico. Spesso le sue opere sono micce che accendono un pensiero altro, a partire da nuovi stimoli. Che tipo di rilievo dà alla poesia, alla parola?
«Nel mio lavoro spesso la parola (definizione di un oggetto, luogo, territorio) è uno strumento per decodificare, per rompere la “struttura rigida” che la società ha costruito intorno al nostro modo di vivere e operare. La parola è un mezzo, come sono stati un “mezzo” altri strumenti che utilizzato negli anni. Molti ricordano le mie “immersioni” degli anni Sessanta dove l’individuo poteva immergersi e perdere quelle certezze che credeva di aver acquisito; iI “Commutatore” (piano inclinato regolabile), l’”Uomouovosfera”, dove l’individuo all’interno dell’abitacolo perdeva la percezione del sopra/sotto/destra/sinistra…».
A proposito di parola. Ci racconta come in questa esposizione al centro Trevi le opere di Lucio La Pietra entrano in dialogo con le sue?
«Mio figlio Lucio è riuscito spesso con le sue capacità creative e con l’uso di nuove strumentazioni informatiche e audiovisive a sviluppare alcune mie intuizioni. Ad esempio “La città che scorre ai miei piedi”, che quindi cresce in modo caotico, è un concetto che Lucio ha saputo ben interpretare con la sua attitudine a superare il modello espressivo usato da me (il film) per entrare in una modalità espressiva più complessa che è quella della video installazione».