Considerata una delle artiste più influenti della sua generazione, Rebecca Horn si è spenta il 6 settembre, nella sua casa di Michelstadt, in Germania, all’età di 80 anni. Nella sua lunga e prolifica carriera, ha lavorato sul proprio corpo con coraggio e coerenza, sperimentando l’utilizzo di materiali eterogenei, tra scultura, performance e cinema, fino alle installazioni ambientali.
Rebecca Horn imparò a disegnare dalla sua governante rumena e, fin da subito, ne fu affascinata, trovando nel disegno un linguaggio espressivo molto più libero e immediato rispetto a quello verbale. Questo si rivelò fondamentale nella sua vita artistica, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Horn raccontava che, in quel periodo, ovunque si trovasse, evitava di parlare tedesco perché si sentiva respinta a causa della sua nazionalità. Il disegno divenne così la sua via di fuga, un modo per esprimersi senza dover “disegnare in tedesco, francese o inglese”, ma semplicemente attraverso linee e forme universali.
Nonostante le aspettative dei suoi genitori, che volevano farle studiare economia, all’età di 19 anni Rebecca decise di seguire la propria passione per l’arte e si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Amburgo, segnando l’inizio del suo percorso artistico. «Le mie opere sono stazioni in un processo di trasformazione», affermava Rebecca Horn, artista femminista che, tra il 1968 e il 1972, iniziò a creare una serie di performance intitolate Personal Art.
Da giovane scultrice negli anni ’60, Horn, come molti artisti della sua generazione – più volte rivendicò la propria affinità con Joseph Beuys, per esempio -lavorava con la fibra di vetro e il poliestere. Ignara della tossicità di questi materiali, l’artista subì gravi danni ai polmoni, seguiti da un lungo periodo di convalescenza. Limitandosi a disegnare nel suo letto d’ospedale, Horn iniziò ad abbozzare immagini del corpo umano e progetti per sculture indossabili, o “estensioni del corpo”.
Nel corso delle sue performance, Horn forzava i confini tra l’individuo e ciò che lo circonda, applicando al proprio corpo varie strutture in legno, metallo e tessuto, come ali di tela che toccano terra, guanti dalle lunghe dita seducenti, una maschera ricoperta di matite e un imponente corno di unicorno, per mettere in discussione lo spazio tra la fine del sè e l’inizio di ciò che lo contiene.
Negli anni successivi, la ricerca dell’artista, la cui genesi era attribuita a un’esperienza di pre-morte, si ampliò alternando protesi per il corpo a sculture cinetiche e installazioni, oltre a film e video in cui spesso compaiono le sue sculture mobili e che riproducevano le proprie performance e i propri travestimenti. Poi, dal 1978, realizzò tre lungometraggi di fiction (Die Eintäzer, 1978; La Ferdinanda, 1981; e Buster’s Bedroom, 1990) in cui accostava il proprio immaginario visivo a trame intricate e simboliche, con un costante riferimento a personaggi-simbolo come il musicista, l’attrice, la ballerina, l’infermiera, in cui ognuno è un prototipo psicologico o fantastico, e trame in cui i protagonisti vivono in realtà fittizie e isolate dal mondo.
Nel giugno 2017 è stata la prima donna a ricevere il prestigioso Wilhelm Lehmbruck Prize come riconoscimento per il suo lavoro e la sua poetica che hanno profondamente influenzato le arti scultoree fra XX e XXI secolo. Fra il 2019 e il 2020 il Centre Pompidou Metz e il Tinguely Museum di Basilea le hanno dedicato la mostra antologica Théâtre des métamorphoses. Nel gennaio 2022 si è conclusa la sua vasta retrospettiva al Bank Austria Kunstforum di Vienna inaugurata nel settembre 2021. Ancora in corso la vasta retrospettiva, aperta lo scorso aprile, che la Haus der Kunst di Monaco di Baviera le ha dedicato e che ripercorre ben sei decenni della sua carriera.
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