Di solito non amiamo i progetti che segnano i confini di un genere; non amiamo quello che esclude, anche se l’obiettivo è di consolidare un percorso storico di emancipazione, soprattutto adesso che definire i tratti distintivi di letti e affetti significa inoltrarsi in un intricato caleidoscopio di sfumature, che cercano di descrivere un reale sempre più avanti di quanto non sia il vecchio e stanco pensiero sull’altro.
Questa mostra però è, in effetti, un’altra cosa. Non si tratta di un’operazione sul femminile in sé, ma piuttosto di una scelta coerente che nasce dal luogo stesso che la ospita.
“Io è un’altra”, bipersonale di Chiara Calore e Greta Ferretti, è ospitata all’interno del progetto D3082 della Domus Civica di Venezia, lo studentato femminile che da anni ormai ospita non solo giovani studentesse, ma anche lavoratrici in trasferta o donne alla ricerca di un luogo sicuro che le accolga. Una lunga infilata di lastre di vetro tra i Tolentini e i Frari, ritmate da pilastri e vetrine di ferro. Un luogo di passaggio che in questo momento gode della mancanza di flusso che un po’ in tutta Venezia tende a spingerti avanti senza farti guardare. Adesso quella calle non troppo stretta ha un che di intimo, nell’attrarre verso gli orizzonti aperti dalle opere delle due artiste. Una scelta netta quella del curatore Daniele Capra, opere di grande formato su tela e su carta, realizzate appositamente per l’occasione.
Abbiamo sentito direttamente dalle parole di Capra la genesi della mostra ancor prima di sapere che ne avremmo scritto. È preso da un progetto che nasce veloce e ha bisogno di artiste che sappiano tenere il tempo incalzante della pandemia, un tempo che ti fa rimbalzare dal rarefatto all’immediato senza soluzione di continuità. Sceglie delle artisti giovani, dinamiche, motivate, in grado di mettersi a nudo senza temere le proprie inquietudini. Una delle due si ammala di Covid, ma questo non le fa posare il pennello, anzi, l’isolamento rafforza il legame intimo con la tela, o meglio la carta. Se il titolo Io è un’altra nasce dalla suggestione di Rimbaud “Io è un altro”, quello che vuole il curatore dalle ariste è proprio che riescano a travalicare i confini della propria ordinarietà, applicando quella prescrizione del poeta secondo cui l’essere sciamano dell’artista deve portarlo ad esplorare e a rivelare ai comuni mortali, proprio i confini meno contingenti dell’anima umana.
Come in quel gioco dei bambini, il saliscendi, in cui il peso dell’uno fa volare la leggerezza dell’altro, così queste quattro vetrine tutte in fila giustappongono due attitudini antitetiche ma complementari a esplorare l’inesplorabile: i vuoti, la leggerezza, il tenue contro la sovrabbondanza, la densità, l’orgia. La Ferretti prima, con le sue carte che tolgono peso a paesaggi onirici in cui personaggi isolati tracciano, con i loro sguardi, traiettorie incapaci di incontrarsi, soggetti depositati dall’acqua e dall’inchiostro sulla carta, come se fossero ritagli in attesa di un collage. Il perturbante, forza primaria del lavoro, nasce dalla solitudine, dall’assenza di “mirada”, quello sguardo latino che tutto accende e che qui, mancando, cristallizza esseri in potenza. Cammini in bilico sull’orlo di un abisso in cui hai paura di parlare, per non rompere un’atmosfera in cui devi avere la forza di bere al calice dell’inquietudine. In questo scenario il vuoto diventa il luogo in cui ogni cosa si può nascondere e l’osservatore non resiste alla tentazione di collocarci i propri demoni.
Chiara Calore è all’estremo opposto. Qui il perturbante si fa grido. La metamorfosi è costante, nell’artista e negli elementi che combina sulla tela; è stilisticamente distante dalla se stessa di pochi anni fa, in residenza alla BLM. Il turbamento è sbocciato e ha portato con sé colori rumorosi e forme prepotenti. La natura è indomita, indomata, gli animali sono tornati allo stato selvaggio e hanno incontrato l’abisso dell’occulto. Il simbolismo è ovunque, come emerso in un flusso di coscienza senza inibizioni, la mano è prāṇa, principio vitale che assume forme altre da sé.
Una mostra difficile da centrare, in bilico com’è tra vetrine e transito. I grandi formati, la pregnanza dei soggetti, l’esplosione dei vuoti e dei colori riescono però a catturare lo sguardo, trascinandoti dentro i concetti.
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