Io posto dunque sono? Intervista a Marco Mancuso

di e - 5 Dicembre 2020

“Io posto dunque sono” afferma Kenneth Goldsmith, riconosciuto poeta e critico americano, nel libro intitolato Intervista con la New Media Art, curato da Marco Mancuso, fondatore della piattaforma Digicult e docente presso la NABA di Milano e l’Accademia di Belle Arti di Bergamo. Il volume, edito da Mimesis, raccoglie la voce di un gruppo di critici, curatori e storici dell’arte che da oltre quindici anni studiano il lavoro di artisti come Cory Arcangel, Paolo Cirio e Vittoria Vesna in cui scienza e tecnologia si integrano come elementi di una produzione culturale che sfida i canoni estetici più severi.
In occasione dell’uscita del libro, organizzato in dieci capitoli tematici tra cui “Arte e Rete”, “Architettura e Spazio Pubblico” e “Cultura e Mercato”, abbiamo dialogato con Mancuso che ci spiega perché la New Media Art fatica a essere riconosciuta a pieno diritto nel sistema mainstream dell’arte contemporanea mentre si concentra, come dottorando allo IUAV di Venezia, ad “Osservare il corpo come il tempio in qui confluiranno ricerca scientifica e tecnologica, dove postumano e transumano rappresentano il punto di partenza per comprendere come mutano i rapporti tra corpo e il suo intorno naturale, tecnologico e relazionale, e in definitiva come si trasformano le relazioni nel processo d’integrazione tra ricerca tecnologica e ricerca scientifica”.

Il capitolo introduttivo, intitolato “Il fascino dell’incompleto”, propone una sorta di sintesi sullo scenario della New Media Art. Quale tipo di rapporto lega questo nuovo libro al tuo precedente Arte, Tecnologia e Scienza?
Entrambi i progetti sono nati dall’esperienza di Digicult che sin dall’inizio, nel 2006, ha funzionato come collettore da una generazione di ricercatori con cui abbiamo iniziato a ragionare sull’impatto della scienza e della tecnologia sull’arte e sul più ampio campo della produzione culturale. Quindi da un lato Intervista con la New Media Art rappresenta cronologicamente un seguito del libro precedente. Dall’altro, lo integra dando voce ad artisti e designer attraverso una serie di interviste in dialogo con autori esperti in materia.

Verso la fine dell’introduzione al libro ti domandi se Digicult, nata in modo spontaneo e indipendente, possa essere considerata un progetto riuscito nonostante la sua incompletezza dovuta alla complessità del campo. Hai pianificato il futuro della piattaforma in modo diverso o pensi di conservare questo approccio spontaneo seppur organico?
Nel testo introduttivo del libro ho cercato di esprimere la filosofia dietro il progetto complessivo che implica Digicult. La incompletezza di cui parlo credo non sia legata a un discorso qualitativo perché dover confrontarsi con piattaforme storiche come Rhizome, con lo scenario internazionale che per tanti anni è stato un poco più avanti di noi (e dove chiaramente esiste una maggior attenzione verso questo campo), era qualcosa a cui non ero disposto a rinunciare. Rendersi credibili non è stata una sfida semplice ma credo che successivamente questo gap si sia colmato. L’incompletezza, oppure ecco, l’incompiutezza – che è leggermente diverso come termine– nasce del fatto che per diversi motivi, tra cui anche per l’attenzione che il nostro Paese pone su questi argomenti, il supporto a livello istituzionale e mediatico non c’è mai stato più di tanto. E quindi Digicult, che si è sposato con tutta una generazione di autori che aveva bisogno di condividere contenuti, fare ricerca e creare rete, rimane incompiuto a livello editoriale e istituzionale perché non ha potuto consolidarsi come altre pubblicazioni o progetti editoriali più stabili da un punto di vista economico. Forse da questa sua spontaneità, a cui si aggiunge inoltre l’interdisciplinarietà di un ambito che lega arte, design, scienza e tecnologia, nasce la sua bellezza ed emerge la eterogeneità che ho sempre difeso, anche se non posso essere certo che questa complessità sia o meno un elemento vincente. Riguardo a come Digicult potrà evolversi in futuro non ho un’idea precisa, ma rimarrà il nostro obiettivo produrre progetti sia editoriali che curatoriali, rimanendo attenti agli ambiti di ricerca che ci contraddistinguono in libertà e senza dovere sottostare a dinamiche di mercato o di moda.

Si tratta di un libro molto denso ma la divisione in capitoli lo rende chiaro e accessibile per capire quali sono le principali preoccupazioni della New Media Art. Pensi che ci siano argomenti di cui i Media Art Studies avrebbe dovuto occuparsi e non l’ha fatto oppure ai quali tu hai dovuto rinunciare nel libro?
Che la New Media Art abbia lasciato fuori direi di no, nel senso che già si fa fatica a dare questo tipo di definizione e racchiudere la ricerca artistica e progettuale dentro i compartimenti stanchi delle definizioni. Questa volta abbiamo voluto uscire dal ristretto ambito degli addetti ai lavori e nello spirito di rendere attraenti i contenuti abbiamo inevitabilmente dovuto dare delle definizioni e cercare di organizzare il materiale per aree di ricerca come linee guida, ma senza la pretesa di fare divisioni nette perché altrimenti si tradirebbe il lavoro degli autori, artisti, designers, e così via che lavorano in modo del tutto interdisciplinare. Inevitabilmente per esigenze editoriali e di sintesi ho dovuto rinunciare ad alcune pratiche che però si possono comunque tracciare all’interno del libro. Mi riferisco ad esempio ai discorsi legati all’identità, al genere, o alle sottoculture. Queste tematiche ci sono ma vengono affrontate all’interno delle singole interviste.

Si tratta di un libro d’arte senza immagini. Questa scelta potrebbe essere legata alla difficoltà della New Media Art ad essere situata in continuità, da alcuni teorici ovviamente non da tutti, con la teoria e con l’area più vasta dell’arte mainstream in generale?
Sì, assolutamente. L’utilizzo delle’immagini in un libro di questo genere comporta degli approcci che possono essere in effetti diversi. Da un lato le forme d’arte delle quali ci occupiamo, le pratiche di ricerca artistica all’interno poi di tutto il grosso compendio di ciò che chiamiamo arte contemporanea, è sicuramente una forma d’arte molto schiava delle immagini. Dall’altro, molte delle opere legate alle nuove tecnologie hanno una componente visiva importante che mi è capitato di sentire criticare come una sorta di grosso Luna Park. È vero che alcune opere legate ai nuovi media e prodotte durante gli ultimi quindici anni hanno una componente visiva forte, ma deve essere assolutamente integrata con il lavoro d’investigazione che insegue ogni autore. L’aspetto estetico-formale rimane un elemento dell’insieme che contribuiscono a definire un’opera d’arte. Quindi, da un lato la scelta di non inserire immagini nel libro è legata al valore critico del testo. Ci sono inoltre una serie di link e riferimenti che consentono un discorso cross mediale e quindi puoi passare dal libro al web e viceversa. Dall’altro c’è il discorso nettamente riferito alle esigenze editoriali e quindi trattandosi di un libro di oltre quattrocento pagine abbiamo fatto questa scelta.

Nel capitolo Cultura e Mercati si fa riferimento all’articolo “Digital Divide: Contemporary Art and New Media” pubblicato nel 2012 su Artforum. L’autrice, Claire Bishop, si interrogava in quel momento sull’incapacità dell’arte contemporanea mainstream di rispondere alla rivoluzione digitale. Da quella riflessione, allora molto contestata, è cambiato qualcosa?
Chiaramente la situazione si è evoluta, ma quell’articolo rimane un turning point. Il capitolo, introdotto da Domenico Quaranta (che è stato tra i primi a occuparsi dell’argomento), illustra il passaggio storico, il cambio di approccio verso le dinamiche tra cultura e mercato e più precisamente quelle che riguardano artisti e designer della New Media Art in collaborazione con aziende tecnologiche e con l’arte contemporanea in generale. Muoversi nelle logiche del mercato obbliga certamente ad adattarsi e non sempre in modo del tutto riuscito ma ritengo, ciononostante, che questo sia assolutamente un bene.

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