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Italics: aperta la quarta edizione di Panorama diffusa tra quattro paesi del Monferrato
Arte contemporanea
È in corso, fino all’8 settembre, la quarta edizione di Panorama, la mostra che ogni anno si svolge in un diverso territorio d’Italia “inesplorato” dall’arte, portando il pubblico alla scoperta di nuove sedi e nuovi territori. Organizzata da Italics, il consorzio nato da oltre 60 gallerie italiane spinte dalla volontà di portare i propri artisti in sedi inconsuete, Italics è ormai diventato un punto di ritrovo annuale e nomade: dopo la prima esperienza a Procida, a cui hanno fatto seguito Monopoli e L’Aquila, la compagine si dedica quest’anno al nord Italia, approdando nel Monferrato.
Quattro le sedi scelte, ovvero Camagna, Vignale, Montemagno e Castagnole Monferrato. Ben lontano dalle artisticamente connotate Langhe, in cui i patron del vino e del turismo hanno segnato un territorio, questi paesi offrono una conformazione differente caratterizzata da un aspetto agreste, antico, tradizionale. Chiese sconsacrate, ex cottolenghi, ex asili, case private, palazzi storici: è in questi luoghi dove si è sviluppata la narrazione di Carlo Falciani, docente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, esperto di Cinquecento toscano e curatore della quarta edizione di Panorama.
Il progetto si ispira ai principi de La civil conversazione, testo scritto dal casalese Stefano Guazzo nel 1574, di cui troviamo diverse edizioni distribuite su ogni sede. L’opera, scelta per il suo ruolo di ponte intellettuale tra quest’area del Piemonte e l’Europa, dove circolò, parte dalla storia di un uomo affetto da malinconia, che si trova a ricostruire i principi del dialogo dopo aver vissuto un lungo periodo di reclusione dovuto a una pandemia. Lampante è il riferimento al nostro recente passato e immediato è il dialogo come punto chiave: nel suo racconto visivo, infatti, Falciani sceglie di mettere sul piatto un fitto dialogo tra passato e presente, particolare e universale, opera e manufatto, scovando nella compresenza tra antico e contemporaneo la prospettiva più interessante della sua mostra.
«I quattro testi presenti in mostra si configurano come quattro capitoli che compongono questa storia. La mostra vuole configurarsi come un viaggio – sul modello di quelli che avvenivano nel Rinascimento – mescolando arte antica e contemporanea, mantenendo sempre un’attualità di temi. Si parla di radici e appartenenza, ritratto e identità, caducità e morte, sacralità dell’arte. E ci si domanda, qual è il valore dell’opera oltre al valore economico?», spiega il curatore introducendo i temi associati o ognuno dei quattro paesi. Capitoli a cui viene affidata una specificità estetica e materica, oltre che tematica: si parte dal macrotema del lavoro con particolare riferimento alla vita contadina, mettendo insieme all’ex Cottolengo di Casale opere terrose e ferrose: si susseguono nelle sale opere di Arcangelo Sassolino con The paradoxical nature of Life, in cui una pesante incudine piega, senza spezzare, la sottile lamina in vetro su cui poggia; i cementi di Giuseppe Uncini a fianco delle fotografie di Franco Vimercati scattate a Monforte d’Alba; le leggere e preziose sculture sospese del peruviano Armando Andrade Tudela, che utilizza l’acciaio inossidabile per imprimere le geografie della superficie di una noce per poi svolgerla come fosse un ectoplasma; più giocose, invece, le opere del giapponese Shimabuku, che nel video Let’s make cows fly! (Hokkaido) fa volare un aquilone a forma di mucca sopra una mandria di vacche, finché gli animali arrivano a interagire con l’opera. Spiazzante, tuttavia, è la sala in cui sono esposti gli strumenti da lavoro – un’incudine, una morsa da banco, un laminatoio – forgiati dagli anonimi maestri d’armi del XVIII-XIX secolo, perfettamente a loro agio in mezzo al percorso contemporaneo.
La seconda tappa è a Vignale, 20 km più a nord, dove a Palazzo Callori si svolge il capitolo Ritratto e identità. È la sede degli umori opposti: mentre al piano terra i toni sono più gravi (i ritratti degli anni Trenta di Ottone Rosai si confrontano le sculture in vetro di Diego Perrone, in cui parti di corpo e parti di macchine si mescolano in masse semi-informi) il piano nobile si apre su spazi affrescati in cui prende vita un carosello di vite, facce e identità, come la melancolia dei dipinti di Romina Bassu, i ritratti di parole di Vincenzo Agnetti, le ancestrali maschere di Edson Chagas (dalla serie Oikonomos) le monumentali memorie di Susana Pilar, la delicatezza della pittura di Alex Katz. Tra i ritratti più duri e drammaticamente struggenti però, troviamo nel corridoio che affaccia sulla corte interna Rape (2001) di Elisabetta di Maggio: posate a terra, centinaia di saponette SOLE formano una sorta di lapide in cui, a fianco del celebre logo industriale di detersivi, si alternano delle scritte incise dall’artista sulla materia porosa: sono lacrime, sangue, saliva e sperma, ovvero gli umori che vengono prodotti durante lo stupro.
Questa drammatica opera, il ritratto concettuale della violenza, confonde tuttavia la percezione dello spettatore, che prima di chinarsi a leggere le scritte viene inondato dal familiare odore di “pulito” che contrasta fortemente il senso dell’installazione. Il senso di decadenza e morte riguarda la terza tappa, nel paese di Montemagno, in cui grande densità avviene nei Voltoni della Scalea Barocca in piazza San Martino, in cui un mobile da toilette maschile dell’Ottocento finemente intagliato convive con la scritta Untitled (No Present) di Claire Fontaine ma anche con il sound Run Fast and Bite Hard (Entre Chien et Loupe) di Marzia Migliora, una sinfonia di suoni di bosco e canti di uccelli realizzata in realtà negli studi di produzione, ovvero la morte delle nostre certezze percettive. Lo stesso senso di caducità è dato dall’opera di Latifa Echakhch in The Fall (Mountains view from Lausanne): un idilliaco paesaggio alpino viene stampato su un telo di stoffa appeso al soffitto, che inevitabilmente crolla distorcendo l’immagine.
Siamo nell’imponente Castello di Montemagno, dove il tema è declinato attraverso l’intensità performativa di Theaster Gates, il barocchismo stucchevole di Francesco Vezzoli, l’armata di sculturine minacciose di Marianne Vitale, i corpi aggrovigliati in modo grottesco di Sara Enrico. Un’atmosfera differente pervade Castagnole, quarta e ultima tappa, in cui si tenta di avvicinarsi alla storia della comunità occupando i luoghi significativi della Casa della Maestra e l’ex asilo Regina Elena, luogo di grande fascino caratterizzato da un sistema di scale in muratura affacciato sull’erboso cortile d’ingresso. Qui vengono collocate le opere più coinvolgenti, dalla sonora Pannocchia di Invernomuto allo specchio calpestabile (e frangibile) di Alfredo Pirri: lavori che interpretano la sacralità laica del sentire, del percepire, dell’essere. Brillante è l’ultimo capitolo, ideale chiusura di questo viaggio attraverso il Monferrato: si tratta dell’installazione Perspectives environnantes del francese Michel Verjux, che illumina la Chiesa dell’Annunziata con fasci di luce che mettono in evidenza affreschi presenti e mancanti. Un momento di sintesi finale che esorta al guardare, al soffermarsi sui dettagli.
«Panorama è un progetto culturale e non commerciale», ricorda durante la presentazione Lorenzo Fiaschi, presidente di Italics e fondatore di Galleria Continua, probabilmente rispondendo tra le righe a chi nei tempi scorsi ha insinuato che Panorama fosse un escamotage per intensificare (quantomeno indirettamente) le vendite delle gallerie che ne fanno parte, tradendone in parte le premesse. La sfida, tuttavia, per questa nuova edizione è di tipo organizzativo e comunitario: per la prima volta Panorama avviene su un territorio diffuso su quattro paesi differenti. Al netto del public program, che come di consueto offre cene comunitarie, colazioni con artisti, incontri e talk, riuscirà a preservare anche a fronte di queste – piccole ma significative – distanze quel clima di agio, comunità e rete che abbiamo visto e sperimentato negli scorsi anni a Procida, Monopoli, L’Aquila?