Nel 1971 la Universal Picture si accordò con George Lucas per la produzione di due film. Guerre Stellari e American Graffiti. L’idea di quest’ultimo era semplice e geniale. Far rivivere all’America degli anni ’70, in crisi economica e impantanata in una guerra impossibile da vincere, un’avventura nostalgica e luccicante, in cui la illibata gioventù americana, coccolata dal boom economico e immersa in storie post-adolescenziali folgoranti e irruente, attraversa le strade di una cittadina californiana, mentre la radio passa hits degli anni ’50 e ’60.
Ma più delle avventure o degli esiti che attende i protagonisti c’è un particolare che è rimasto inimitabile e iconico in questo film. Le automobili. Più della retorica hollywoodiana, dei buoni sentimenti, il coraggio, l’amicizia, il desiderio e le paure del futuro. Tutto sembra impallidire, zittirsi di fronte alla Chevrolet Impala del ’58 color neve, alla velocissima Ford Model B gialla del ’32, la Douce Coupè, oppure alla Thunderbird della bionda misteriosa che affianca in una famosa scena la lussuosissima Edesel Corsair verde acqua, dal caratteristico frontale anni ’20. È il metallo, la materia che rimane impressa come un marchio a fuoco nella mente, nient’altro.
Si direbbe che siamo di fronte al marciapiede del Mel’s Drive di Modesto, California, ma in realtà è Palazzo Strozzi e questo gioiello di fine ‘400 ospita la mostra “Jeff Koons – Shine”, 40 anni di lavori del famosissimo e ricchissimo artista neo-pop di York, Pennsylvania, sbarcato a Firenze con una mostra stellare, curata da Arturo Galansino e Joachim Pissarro, in collaborazione con la Fondazione Strozzi e Intesa Sanpaolo.
Ed è proprio questo l’effetto che la mostra sembra regalarci. Si rimane allibiti dinanzi a uno show di cromature, lamiere bombate, fiancate che ti sfilano davanti, con quella sicurezza di chi sa di piacere e smuovere emozioni con la potenza infinita di un innocente passeggio.
Le grandi opere che aggiriamo, affianchiamo (Balloon Monkey – 2006/2013, Seated Ballerina – 2010/2015) sprigionano un’energia propulsiva e centripeta al tempo stesso, condannano il nostro sguardo ad una schiavitù ipnotica e cronometrica, a cui non possiamo sottrarci, come assiepati davanti a un parcheggio di una vecchia autorimessa di Los Angeles, con pezzi unici e mai visti. E che mai, nella vita, rivedremo tutti insieme.
L’unica possibilità di sfuggire a questa costrizione è solo immaginarne un’altra più esecrabile. Toccare, “assaggiare” quelle curve, lasciargli in ricordo le nostre impronte, alla ricerca di un’impossibile composizione tra queste surfaces specchianti e una nostra proiezione tattile, abbozzata ma inevitabilmente frustrata. Come tale diventa la “sfida” tra noi e Koons, alla ricerca di una sbavatura nella tela (Tulips – 1995/1998), di un granello di polvere sulle bande, di un fiore appassito. Ma è tutto perfetto. Ogni mattina i compressori ripuliscono le forme e i fiori sono innaffiati e cambiati con perizia come in una suite del Narcissus Riyadh Hotel.
Tutte le superfici coinvolte, quelle impreziosite (Baccarat Crystal Set-1986, Luis XIV-1986, Jim Beam / J.B Turner Train, 1986), quelle acquatiche (Metallic Venus – 2010/2012, Bluebird Plater – 2010/2016) o quelle ormai “olimpiche” (Sacred Heart Magenta/Gold – 1994/2007, Rabbit – 1986) nonostante la distanza di decenni, la differenza di maestranze e di visione, sembrano appartenere tutte ad una stessa legge, allo stesso orario di trasmissione, allo stesso unico corpo del broadcast.
Non è solo la mano dell’artista ma qualcos’altro. Probabilmente Koons si è avvicinato ad una sorta di scorza, ha grattato abbastanza il “fondo”, fino ad arrivare (per paradosso) ad una essenzialità che attraversa e dismette ogni supporto materico. Cosi che i vari richiami alla cultura pop, alla sessualità, ai surrealismi e al packaging da shopping mall sembrano tutti in fondo specchietti per le allodole per i nostri occhi, catturati e travolti, incapaci di sezionare, dividere e definire. Nella luce accecante come nel buio più impenetrabile. Appunto una shine, una brillantezza che può trasformarsi rapidamente in oscurità profonda, in “shining”. Un flusso inconscio, telepatico, una presenza spettrale che infesta, quasi una “capacità di immagazzinare e rilasciare spiriti” nei gonfiabili in cui l’ artista rivive e ricompone i traumi della separazione dal proprio figlio (Balloon Dog/Red – 1994/2000, Hulk/Tubas-2004/2018, Lobster – 2007/2012).
In essi sembra annidarsi non solo la nostra meraviglia infantile, il nostro salto all’indietro verso un sentire primitivo, da fase orale deluxe. Per noi soggetti in shock da regressione sensibile, può rinnovarsi quel trauma, quella scioccante bellezza che si tramuta in angosciante e misteriosa irrequietezza. L’impatto con un mondo a noi sconosciuto, sfuggente perchè semplicemente troppo grande e meraviglioso per noi ancora neo infanti.
Questo “sortilegio psico-visivo”, questa “quotidianità turbo-consumistica che arriva a desacralizzare l’opera d’arte” (Teresa Macrì) anzi, ogni opera d’arte, sembra da un lato fare il gioco di Koons. Ma dall’altro è come se lo svuotasse totalmente di significati ulteriori. I famosi 15 minuti di celebrità di Warhol per Koons non passano mai. Si ripetono all’infinito, perchè non smettono mai di ricominciare. Ma rimangono sempre 15 minuti. Chi di noi, in un momento topico, davanti a un panorama sublime, un incontro, una frase, un evento magico o terribile della propria esistenza ripenserà a Koons? Di ciò probabilmente lui ne riderebbe.
Eppure davanti a questi magnifici involucri, perfette nuvole in terra che denotano un’intrinseca freddezza, qualcosa si riscalda, si rianima con la gioia della promessa ma soprattuto della potenza. Grazie ai colori e al soffio del Superman di Olive Oyl (2003) sembriamo lanciati, gettati, sospinti verso un glorioso futuro di Life, Liberty and pursuit of Happiness. E Koons ne riderebbe ancora soddisfatto.
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