L’irregolare Jim Dine a Roma, in una mostra intensa e puntuale

di - 20 Febbraio 2020

Il principale merito della mostra antologica dell’artista americano Jim Dine, curata da Daniela Lancioni e aperta fino al 2 giugno, è quello di presentare la sua opera in maniera esaustiva attraverso 80 opere, provenienti da grandi musei americani ed europei, tra i quali spicca il Centre Pompidou di Parigi. Un percorso “classico” ma chiaro e leggibile, che permette di seguire tappa per tappa la carriera di Jim Dine, artista irregolare e non classificabile, e proprio per questo interessante.

Un percorso lineare per un artista irregolare

In Italia lo abbiamo visto in alcune occasioni pubbliche nell’ultimo ventennio: nel 2000 al Palazzo delle Papesse di Siena (Jim Dine in Italia, a cura di Martha Boyden), poi alla Gam di Torino nel 2017 (!!!Surprise.Jim Dine@Gian Enzo Sperone, a cura di Gregorio Mazzonis e Maria Teresa Roberto) e alla fine dello stesso anno all’Accademia di San Luca a Roma (Jim Dine. Houseof Words.The Muse and seven Black Paitings), ma per la prima volta la sua opera viene presentata in maniera esaustiva, rivelando molte sorprese. La prima, in ordine cronologico, è costituita dai primi happening, che si sono svolti nel 1960 in due gallerie di New York, la Judson Gallery e la Reuben Gallery, ricostruiti grazie ad immagini tratte da archivi fotografici americani, studiati per l’occasione da Paola Bonani.

Jim Dine, vista della mostra, Palazzo delle Esposizioni

Una preziosa documentazione analizzata in catalogo da Francesco Guzzetti in un illuminante saggio, che sottolinea la qualità neodadaista degli happening di Dine (spesso in collaborazione con l’amico Claes Oldenburg), che avevano l’aspetto di ambienti colorati e confusi, dominati dalla pittura e dal collage e da azioni dove l’artista si presentava vestito da clown (The Smiling Workman, Reuben Gallery, 1 /4/1960) o come una vera e propria performance con diversi interpreti, basata sulla memoria di due incidenti stradali (Car Crash, Reuben Gallery, 1-6 /11/960). Questi eventi denotano un atteggiamento dinamico e energetico, che caratterizza tutta l’arte di Dine: “Dipingo spinto da un impulso” dichiara l’artista nel 1959. E lo stesso impulso gli consiglia di abbandonare l’happening per abbracciare una pittura che ingloba gli oggetti quotidiani: “Un precipitare di oggetti” puntualizza Lancioni. A certificare il passaggio è l’opera Two Nets (1960), che apre una delle sale più intense della mostra, con opere realizzate tra il 1961 e 1962, dove l’incontro tra pittura e oggetti costituisce la cifra stilistica di Dine e appaiono più evidenti i richiami con l’arte italiana degli stessi anni.

Jim Dine, vista della mostra, Palazzo delle Esposizioni

Riferimenti più o meno espliciti che denunciano quanto fosse fecondo lo scambio tra New York e Roma, attraverso mostre, riviste , articoli, saggi, immagini o semplicemente conversazioni tra le due sponde dell’Atlantico nella prima metà degli anni Sessanta. Così Window with an axe (1961-62) si ispira probabilmente ad un’opera come Vedova da poco (1920) di Marcel Duchamp, ma sembra costituire un interessante precedente per Finestra (1962) di Tano Festa, che guardava all’arte americana fin dagli anni Cinquanta. Così come è difficile non supporre che una tela come Big Black tie (1961) non abbia ispirato Cravate (1967) di Domenico Gnoli.

Come dichiarava lo stesso Tano Festa, intervistato da Giorgio De Marchis in occasione della sua personale a La Salita nel 1967, “la Pop Art è legata a New York come a Roma”.          In effetti davanti ad un’opera come Long Island Landscape (1963) non si può non pensare ad un rapporto con i paesaggi anemici di Mario Schifano, ed in particolare a Central Park East (1964), eseguito durante il soggiorno dell’artista a Nw York tra il dicembre del 1963 e l’estate del 1964.

Jim Dine, Two Palettes in Black with Stovepipe (Dream), 1963 | olio su tela, tubo da stufa di metallo e masonite, cm 225 x 208 x 192. The Sonnabend Collection e Antonio Homem. Prestito a lungo termine a MART – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. © MART – Archivio Fotografico e Mediateca

L’omaggio a Pinocchio

Dopo le intense sale dedicate alle opere dei primi anni Sessanta, punteggiate di capolavori che inquadrano in maniera puntuale le peculiarità della pittura di Dine, la mostra prosegue in maniera rigorosa e senza inciampi, con momenti particolarmente felici come l’accostamento tra British Joys (A Picture of Mary Quant) e My Tuxedo Makes an Impressive Blunt Edge to the Light, tele del 1965 che includono abiti maschili e femminili, e soprattutto Nancy and I at Ithaca, la maquette grafica del catalogo di una mostra tenutasi presso l’Andrew Dickson Whiye Museum of Art alla Cornell University di Ithaca (New York), dove Dine insegnò nel 1966 per un anno e realizzò otto sculture di grandi dimensioni, delle quali sono rimaste soltanto due, Straw Heart e Green Hand, entrambe esposte al Palazzo delle Esposizioni.

Nell’ultima sala, con un gesto di grande generosità, Jim Dine ha allestito undici sculture in legno che raffigurano Pinocchio, burattino caro all’artista, realizzate tra il 2004 ed il 2013: degno finale in chiave ironica di una mostra da non perdere, accompagnata da un catalogo denso di contenuti edito da Quodlibet.

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