Morte, perdite e lutto e un’angoscia diffusa sono temi tristemente e fortemente presenti nelle cronache e nelle vite di molti in questi giorni. Prima che tutto ciò avesse inizio, in realtà poco più di due mesi fa, la giovane artista americana Bunny Rogers (1990, Houston, Texas) inaugurava su questi temi la sua personale “Kind Kingdom” al Kunsthaus di Bregenz (fino al 13 aprile).
Quando penso a una mostra voglio creare una vetrina, ma poi diventa un armadio: Rogers attinge al suo vissuto interiore e si mette in gioco in prima persona con le sue fragilità per toccare il tema della morte e le diverse espressioni e fasi del lutto nell’immaginario collettivo occidentale. In una sottile e perfetta consonanza tra livello fisico e simbolico, l’artista lascia sbocciare la sua personale Vanitas contemporanea
Concepita come opera site specific, “Kind Kingdom” aderisce perfettamente alla pelle dell’edificio progettato dall’architetto svizzero Peter Zumthor, di cui l’artista ha cambiato odore, temperatura, luce e perfino tasso umidità mostrando una capacità rara di dominare lo spazio con grande disinvoltura.
L’esperienza di visita è immersiva e delicatamente
La mostra è orchestrata come un climax che trova il suo culmine al secondo piano con Trash Mound (2020). Qui lo scenario si evolve: aumenta la luce, e insieme ad essa l’odore di decomposizione del prato. L’intero spazio espositivo è un desolante paesaggio di bottiglie, lattine, bicchieri di plastica, piatti con resti di torta, frammenti di palloncini neri afflosciati. La festa è finita. Tutto è “saltato in aria”. Il dolore reale è “sporcato” dalla sua stigmatizzazione nell’immaginario collettivo popolare. Da sacchi di immondizia fuoriescono infatti elementi di un repertorio sentimentalistico kitsch-di massa, che celebra, spesso morbosamente, le morti illustri; riviste su Lady D, guanti bianchi, orsetti, CD di Célin Dion (My Heart Will go on) e di Elton John.
Il risultato è una messa in scena d’autore potente, immediata e convincente; in diversi elementi riecheggia un tema con cui Rogers siè confrontata ossessivamente nella sua opera, il massacro della Columbine High School in Colorado, negli Stati Uniti, nel 1999. Ma la mostra per il KUB va oltre, indicando possibili vie di elaborazione. Il dolore sembra ricomporsi in Cement Garden (2020): un consesso di sculture di cemento dal tratto minimalista, in cui sono racchiuse impalpabili rose.
“Kind Kingdom” termina con un finale di purificazione che appare profetico alla luce del momento storico attuale. Il quarto piano del museo, rivestito di 25mila piastrelle, è diventato un’enorme Locker Room: un grande spogliatoio, simile a quelli di tante scuole e palestre. Nebbia e umidità invadono lo spazio, ci si muove sospesi, unico suono quello delle gocce d’acqua che scendono ritmicamente dalle docce. Come il momento del dolore, nell’opera di Rogers anche quello della purificazione è collettivo. Per quanto difficoltoso e perfino imbarazzante, “metterci a nudo” davanti agli altri sembra essere un passaggio indispensabile e necessario.
“King Kingdom”, al momento chiusa a causa dell’emergenza Covid, continua “virtualmente”, come voluto dall’artista, con una serie di fotografie che ne testimoniano il progressivo decadimento, pubblicata nel sito del museo, dove sono disponibili diversi materiali sulla mostra, tra cui un talk con l’artista.
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