-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Klepsydra: opere site specific al Castello Aragonese di Ischia
Arte contemporanea
«È davvero singolare osservare Ischia da quassù. Sembra capovolta. Noi isolani non siamo abituati a questa vista». Poche parole che sanno già di scoperta, lì dove sorge qualcosa che c’è sempre stato, il Castello Aragonese, ma che, pur visibile e maestoso, è stato protetto e secretato ai più. È la sua storia dura e terribile a dircelo. Una cattedrale sventrata da antiche battaglie di mare, un putridarium che avvelenava le primogenite delle famiglie nobili, un duro carcere per prigionieri politici, una chiesa depauperata nella sua gloria dalla santa miseria e dall’ottusità di décrets napoleonici. E se dominio, potere e morte, commensali abituali di queste mura, hanno permesso ai suoi abitatori di annebbiare ogni faccenda del mastio, quel senso di espulsione e di esclusione nei secoli ne ha decretato l’inesorabile sgretolamento fisico ed emotivo. Eppure, quelle mura diroccate, le pareti infiltrate, i locali guastati e impolverati si sono trasformati, grazie a uomini visionari come Nicola Ernesto Mattera, il figlio Gabriele (sua l’intuizione di organizzare importanti mostre d’arte contemporanea negli anni ’70 e ’80), e recentemente i nipoti Nicola e Cristina, in un luogo che irradia bellezza, umanità e ricerca. E nonostante i lunghi e costosi restauri, un elegante passage di pietra, in grado di annullare il gioco delle maree, e un robusto ascensore degli anni ’70 che si arrampica tra rampe di tufo e piombatoi, l’inaccessibilità spirituale e fisica del Castello pulsa in maniera tuttora potente.
Ed è qui che nascono eventi come “KLEPSYDRA”, una sfida portata avanti da tre artisti, Valentina Palazzari, Thomas Lange e Mutsuo Hirano e dal loro volitivo curatore, Davide Sarchioni. Un lungo e faticoso lavoro di immaginazione e operazione tra le sale, i piani, i labirinti del Castello di Ischia, silenzioso e accogliente, quanto segnatamente algido e dolorosamente ascensionale, costrittore di vorticose risalite emotive quanto di dolorosi sprofondamenti interiori. Le opere assumono così una scadere definito, limitato, dettato dallo scorrere della sabbia di una KLEPSYDRA, e non solo perché il nostro tempo nel castello è sempre momentaneo, stabilito dal favore del castellano o peggio da un decreto giudiziario. Ma perché tutto ciò che ricade in esso, mai neutro ma compresso, schiacciato da forze storiche e naturali insostenibili, non ha tempo di posarsi ma sedimenta come frammenti di un processo carsico, come ennesimi strati sensuali e di senso. E il portale che ci attende non sarà soltanto quello in pietra lavica della Chiesa dell’Immacolata ma anche quello apertosi all’interno di questo elegante edificio barocco, che si spalanca a noi, frutto sì di un’intuizione visiva di Palazzari e di Lange, ma anche suggerito dalla potenza di un luogo già “doppio”, perché porta del cielo (la grande cupola) e porta del mare, con il suo favoloso belvedere.
Se il Cielo di Lange (2021) distende con avvolgenza, tra cornici e lesene, i propri oli come giocose ossidazioni di un’umidità coloristica e che crepa dolcemente la nettezza sacrale degli stucchi, esso lascia il passo alla poetica meccanica di Autoritratto di Palazzari (2021), soggetto sguarnito di ogni struttura, armatura, ma provvisto di una nudità e di un magnetismo insostenibile fin dal primo sguardo, dettato dalle vibrazioni intime e infinite di catene e cavi, di nero e blu. E se non si sfugge all’ anafora della ruggine di Palazzari, dello sfinimento di ciò che è indistruttibile, ebbene essa è comunque ruggine di mare, di àncora, di profondità. Se l’intuizione d’artista è materia pura, la forza per issarla quassù è doppia, tripla, perché racconta da generazioni di uomini di mare, da sempre abituati a pensare e ad agire solo collettivamente.
Quello stesso richiamo cobalto del mare, quella sua ineluttabile forza di risacca, ti rimane dentro anche nell’attraversare oscuri cunicoli, sale, passaggi, cripte. Come alloggia nell’occhio dell’artista che qui sente il bisogno di rivivere quella rifrazione sotto forma di delicate pennellate, intinte di sale e vernice marina (Untitled, Thomas Lange, 2021), o aggrovigliata da una soffice rete da pesca, ritmata da bambù e figure in ceramica (Acqua, Mutsuo Hirano, 2021). L’elemento acquatico scorre anche sulle figure che fanno da cerniera agli ambienti della Cattedrale. L’Idolo del mare, (Mutsuo Hirano, 2021) provvisto di squame vitree, imprigionato in una cisterna arida come in uno sguardo abissale e la Bagnante (Thomas Lange, 2011-2021), lordata dalla testa in giù da un nettare di ortensie e dalla pioggia del mattino che ciclicamente inonda questo pozzo di luce. Soggetti, che in un gioco di sottili occultamenti e svelamenti avrebbero potuto da sempre trovare ricovero in certi angoli del Castello. Mentre ciò che avviene nella Cattedrale dell’Assunta è una sfida aperta degli artisti all’equilibrio e ai rabbiosi spartiti del vecchio maniero.
Difatti sembra trovarsi di fronte a una caverna tufacea in cui stucchi, bassorilievi e puttini tentano di distoglierci da quel senso di assenza e vuoto che ci coglie. In soccorso, la tinta “marzapane” di Angelo (Thomas Lange, 2021) che si riflette nella sua espressione incerta, quasi corrucciata per essere stato lasciato lì, in una cappella. Lo sguardo dubbioso della creatura di Lange è il punto di caduta cromatica di tutta l’esposizione, come un raggio di sole inaspettato, che accecare il visitatore di rovine.
E se nel gioco specchiante di Finestre (2021) Lange sembra riabbracciare una giovane rifrazione caleidoscopica, è con Altare (2021) che occulta dalla luce filtrante il corpo santo, freddo e inanimato di un piccolo altare dimenticato, come vittima di una crime scene nella serie tv Mindhunter. Quasi a volersi scusare della gaiezza di cui sopra.
Un movimento opposto a Ostensione (2021) di Palazzari, con i suoi cavi d’ acciaio che percorrono con leggerezza le arcate nudificate dagli eventi, in un atteggiamento ambiguo, dedito ora al supplizio ora all’ammonimento, percorsi da una scarica di energia invisibile e silenziosa, come il potere della parola sacra, oscura e onnipresente, liberatoria e terrificante. E in tutto questo clangore di scene e proponimenti, lo sguarda enigmatico di Mutsuo Irano, moltiplicato numerose volte nelle viscere della cripta gentilizia, sotto forma di terracotta umida, acquitrinosa, fangosa e feconda (Ondina, 2021), si stabilisce come punto di perfetto equilibrio, come granello centrale e immobile, dunque infinito, della KLEPSYDRA.