L’artista curda Zehra Dogan ha donato alla Fondazione Brescia Musei un’opera site specific, dedicata alla resistenza della città lombarda al Coronavirus e realizzata a distanza, come questi tempi difficili impongono. Bloccata a Ginevra a causa del lockdown e, quindi, impossibilitata a produrre l’opera direttamente a Brescia, Dogan ha infatti inviato un lavoro digitale, successivamente stampato sulla superficie di 130 metri quadrati dell’affaccio monumentale di piazza del Foro, nel cuore archeologico della città.
Riprendendo l’immaginario biblico dello scontro tra Davide e Golia, Zehra Dogan si ritrae in abito da infermiera mentre lotta contro il Covid-19 utilizzando un fonendoscopio come fionda. Una lotta contemporanea che riecheggia anche in un’altra storica, con i primi versi di “Bella ciao” – «Una mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor» – riprodotti nell’opera, accostando il tema della lotta alla pandemia ai valori della Resistenza al fascismo, per la quale Brescia è insignita della Medaglia d’Argento. I temi della resistenza e della liberazione, peraltro, sono centrali nella artistica di Zehra Dogan, nel suo impegno politico e nella sua vicenda umana.
L’installazione, realizzata su una superficie concessa dall’avv. Andrea Boghi, sugella il rapporto tra l’artista e Fondazione Brescia Musei, avviato con la mostra “Avremo anche giorni migliori – Zehra Dogan. Opere dalle carceri turche”, tenutasi dal 16 novembre 2019 all’8 marzo 2020, presso il Museo di Santa Giulia e inaugurata in occasione del Festival della Pace. La mostra, a cura di Elettra Stamboulis e corredata da un catalogo edito da Skira, è stata la prima personale di taglio curatoriale dell’artista e ne ha segnato la scoperta da parte del pubblico europeo.
Nata nel 1989 a Diyarbakır, in Turchia, Zehra Dogan si è laureata alla Dicle University’s Fine Arts Program e ha co-fondato la prima agenzia stampa costituita unicamente da donne, la JINHA (Jin in curdo significa donna), per la quale ha lavorato dal 2010 al 2016. In quell’anno, infatti, era il 21 luglio, la giornalista venne arrestata mentre si trovava in un bar nella città curda di Nusaybin. Il 2 marzo 2017 è stata assolta dall’accusa di appartenenza a un’organizzazione illegale ma è stata condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di carcere per «propaganda terroristica». La sua colpa, aver pubblicato sui social media un dipinto raffigurante la distruzione di Nusaybin da parte dell’esercito turco.
La vicenda suscitò grande scalpore e anche Banksy, nel 2018, le dedicò un murales, a New York. Nel periodo del conflitto nelle aree curde della Turchia, Dogan aveva provato a raccontare la guerra nelle città interessate dal coprifuoco, come Cizre e, appunto, Nusaybin, zone in cui la presenza dei giornalisti era bandita dal governo nazionale.
Nel 2017, in attesa del processo dopo la prima detenzione, ha organizzato una mostra a Diyarbakır, dal titolo “141”, il numero dei giorni trascorsi in cella, con i dipinti realizzati in prigione. A novembre 2019 è stato pubblicato dalla casa editrice Editions de Femmes il suo carteggio con Naz Oke durante la prigionia, dal titolo Nous aurons aussi de beaux jours, da cui trae ispirazione il titolo della mostra di Brescia.
Il percorso espositivo riuniva circa 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista realizzati durante la detenzione dell’artista nelle carceri turche, in cui Zehra Doğan è stata rinchiusa per quasi tre anni a causa del suo impegno artistico e giornalistico a favore della lotta di liberazione del popolo curdo.
La mostra è stata accompagnata da vari eventi speciali, da un programma di attività di approfondimento e di laboratori per adulti e bambini, al ritratto di Hevrin Khalaf, segretaria generale del Partito del Futuro siriano, attivista per i diritti delle donne e uccisa barbaramente dai miliziani, che Doğan ha realizzato dal vivo, il 23 novembre 2019.
«Se vogliamo trovare un’etichetta, femminista è la prima identità di Zehra, che si è formata all’università di Diyarbakir in Arte, e ha poi proseguito giovanissima nella carriera di giornalista impegnata sul fronte. Per lei non c’è soluzione di continuità tra arte e vita, tra impegno politico e relazione.
Questa idea è talmente radicata, che quando è stata imprigionata per un disegno, ha creato nelle tre carceri in cui è stata via via trasferita una comunità di co-creazione con le detenute che ha incontrato. Non parlo di laboratori d’arte, peraltro non ammessi. Ha usato la sua disciplina estetica, come la chiama lei, per creare relazioni attraverso l’arte con le altre detenute, che potevano essere giornaliste come lei o comuni prigioniere, per raccontare quello che accadeva oltre le cinta delle prigioni, per mostrare che cosa significa segregare i corpi, ma soprattutto che lo spazio della libertà datoci dall’arte non può essere castigato.
Quindi direi che più che intreccio, per lei la vita è arte, ma non nel senso dandy della definizione…», ci raccontava Elettra Stamboulis, in una nostra intervista in occasione della presentazione della mostra.
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