«È nata da un’intuizione» di Ilaria Bonacossa, direttrice di Artissima, la partnership inedita tra il Centre d’Art Contemporain di Ginevra e le OGR di Torino, come ci racconta il suo Artistic Director Nicola Ricciardi. La “Biennale dell’immagine in Movimento” 2018 – fondata a Ginevra nel 1985 da Andrè Iten con il nome di “Semaine Internationale de Vidéo” e di cui, dal 2008, si occupa la Kunsthalle ginevrina – si trasferisce a Torino per la sua seconda tappa.
Un progetto ambizioso, complesso e sfidante in un luogo fortemente connotato che ha ripreso il discorso critico di Ginevra – rispetto non solo alle opere e agli artisti, ma anche alle forme di un medium, il video, in rapido mutamento – portandolo agli estremi.
I curatori dell’edizione del 2018, Andrea Bellini – direttore del Centro d’Arte Contemporanea di Ginevra – e Andrea Lissoni – Senior Curator International Art (Film) della Tate Modern di Londra – hanno lavorato sull’idea di produzione e di continuità. Rispetto ai formati usuali delle biennali, il cui sistema vacillante va necessariamente ripensato – la “BIM” ha ideato un protocollo che prevede una biennale contenuta (20 artisti al massimo) e la produzione di tutte le opere commissionate agli artisti, senza imporre un vero e proprio tema curatoriale.
Secondo Bellini si verifica un paradosso:«Le altre biennali esistono grazie alle opere d’arte, mentre grazie a questa ogni 2 anni esistono 20 opere nuove». E travalicando la fissità delle biennali “contenitori” – aperte e chiuse senza memoria storica – Bellini e Lissoni hanno aperto gli orizzonti e puntato verso coordinate non convenzionali. Gli artisti coinvolti – Lawrence Abu Hamdan (1985), Andreas Angelidakis (1968), Korakrit Arunanondchai (1986) e Alex Gvojic (1984), Meriem Bennani (1988), Ian Cheng (1984), Elysia Crampton (1985), Tamara Henderson (1982) e Kahlil Joseph (1981) – i più significativi del panorama attuale, provengono nell’ordine da Giordania, Grecia, Thailandia, Marocco, Stati Uniti e Canada.
Con la loro pratica – che contempla la rinuncia ai supporti, alle superfici tradizionali (gli schermi diventano ambienti), la creazione di corpi di opere in costante aggiornamento (a più riprese senza imporre limiti) e il lavoro “in situ” (i contenuti sono generati ed editati dal vivo) – hanno stravolto la bussola nel rapporto tra arte e cinema. Tra immagini e suono. “The Sound of Screens Imploding” è infatti l’assunto di questa mostra.
Il suono che gli schermi producono quando implodono, «tecnicamente non vuol dire molto e questo era l’obiettivo. Volevamo evocare l’idea dello schermo, del suono, dell’implosione e non dell’esplosione e far riflettere su che tipo di immagine è questa. Esiste? cosa stiamo vedendo?», spiega Lissoni. Dunque entrare nello schermo e cercare di percepire un unico grande ambiente polifonico in cui le opere, pur vivendo in una dimensione di intimità, si sintonizzano, si tarano – e noi possiamo ascoltare senza vedere nulla o soffermarci intercettando diversi suoni.
Grotte con schermi prismatici (Joseph), che si propagano in un’installazione ambientale (Arunanondchai) o sorprendentemente prive di schermi (Crampton e Angelidakis), legandosi attraverso un efficace espediente pensato dall’artista/architetto Angelidakis.
Partendo dalla suggestione di Walled Unwalled di Abu Hamdam, per cui qualsiasi muro è ormai penetrabile, le imponenti navate delle OGR sono state ritmate da un tessuto di plastica riflettente e insieme opaco che, attraverso più livelli, racconta in fondo anche la storia della pellicola. E ci permette di “bucare” (Bellini) e “corrompere” (Lissoni) lo schermo, indagine allargata di questa potente biennale.
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