La cornice naturale del complesso delle Dolomiti torna a essere per il nono anno la spettacolare scenografia che fa da sfondo a Biennale Gherdëina, l’evento d’arte contemporanea nato nel 2008 come appendice di MANIFESTA 7. Capace ormai di muovere i propri passi in autonomia, sollevando non solo una giusta attenzione a livello nazionale, ma anche internazionale, la Biennale affonda le sue radici nei miti, nelle tradizioni locali e nella peculiarità del suo plurilinguismo, accresciute dalla presenza di artisti provenienti da diverse aree geografiche. The Parliament of Marmots è il titolo scelto quest’anno dal curatore Lorenzo Giusti che, insieme a Marta Papini come curatrice associata, declina gli intenti della manifestazione culturale seguendo tre linee principali «Le tematiche al centro di questa edizione della Biennale Gherdëina – spiega Giusti – sono tre: il selvaggio come dimensione creativa, il multispecismo come traiettoria del divenire e la montagna come terreno di incontro e come dimensione narrativa». Il nome prende infatti spunto dalla leggenda ladina dei Fanes, un popolo mite che prosperava grazie alla collaborazione con le marmotte, venuta meno a causa dei capricci di una principessa altezzosa.
Da queste riflessioni sul territorio, sono partite le produzioni dei 35 artisti e artiste appositamente realizzate per la Biennale, dislocate per la valle tra spazi espositivi, luoghi dismessi e passeggiate nel verde. È l’esempio di Arnold Holzknecht, esperto intagliatore del legno locale, che concepisce per l’occasione due lupi-giocattolo, uno bianco e uno nero, a simboleggiare le visioni contrastanti sul ritorno dell’animale nelle foreste, collocati lungo il sentiero che conduce a un parco giochi in Val d’Anna. Allo stesso modo Chiara Bersani spettina la sua performance The Animal, trasportandola giù dal piedistallo esagonale su cui normalmente viene presentata, su una roccia della Vallunga, trasformandosi in un Animale selvaggio in cerca di un contatto con le altre specie. Nel buio del teatro dismesso di Ortisei, viene riprodotta la traccia sonora ideata da Ruth Beraha, che ricrea un ambiente naturale in un luogo tradizionalmente deputato alla cultura. Quello che inizialmente sembra essere un idillio di uccellini che cinguettano favorendo l’immaginario di un locus amoenus, evolve precipitosamente in un climax ascendente innescando una cieca paura, su cui si allunga l’ombra distruttrice dell’impronta umana.
A pochi passi, nel centro nevralgico della città, la statua equestre in legno di Julius Von Bismarck pone nuove domande all’interno del più ampio discorso sulla statuaria nei centri abitati, sistemando in sella al cavallo un bostrico, l’insetto che a causa del cambiamento climatico sta infestando le aree boschive circostanti. Se le maschere colorate di Linda Jasmin Mayer evocano esseri simili ai plancton che abitavano i mari da cui le Dolomiti erano sommerse, i lavori dell’Atelier dell’Errore raffigurano imperfette ma bellissime marmotte, in memoria di quell’antico patto che aveva fatto prosperare i Fanes. Punta di diamante della rassegna è sicuramente il Castel Gardena Fischburg, che come una sentinella sorveglia la valle dall’alto, ospitando in pancia i lavori di Femmy Otten, Diana Policarpo e Tobias Tavella. Dall’escursione che conduce all’animale marino di Ingela Ihrman, la cui ossatura si compone di tronchi di legno adagiati sul prato, agli spazi espositivi a Pontives, è impossibile non incappare in qualche opera d’arte mentre si cammina nel cuore della Val Gardena.
Una menzione speciale va al tributo realizzato per Lin May Saeed, la scultrice e attivista animalista tedesco-irachena, prematuramente scomparsa l’anno scorso. La retrospettiva divisa tra la Sala Trenker nel centro di Ortisei e la GAMeC di Bergamo, inquadra la visione speranzosa dell’artista, che attraverso scene prese dai racconti dell’antica Mesopotamia, dalla tradizione islamica e da quella cristiana, propone un futuro illuminato da una pacifica convivenza interspecie. Il polistirolo, usato consapevolmente come linguaggio plastico simbolico, viene modellato per ricordare la condotta fallimentare dell’uomo, alla quale si può tentare di porre rimedio ricucendo il legame con l’ambiente. Le montagne non devono quindi essere viste con un muro che divide ma come punto di sutura di quella ferita apertasi con la separazione tra natura e cultura, tra uomo e habitat naturale, il luogo da cui ripartire per ritrovare noi stessi nella dimensione selvatica da cui proveniamo.
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