Gli ultimi ritocchi, e via, pronte per mettersi in posa, nel preciso punto indicato. Dapprima, entrano quelle prevalentemente in nero, “accerchiate”, poi, da quelle in bianco/crema. Ognuna deve posizionarsi dove trova un segno sulle tavole del pavimento. E così, le 300 donne, come trecento colonne, prendono il loro posto nello spazio, assumono la loro muta posa. Delle donne che fanno scudo ad altre donne, come nuove eroine di Sparta. Oppure un grande occhio che osserva l’immensità. Alle 18.00 esatte, tutto prende avvio: inizia la VB93, la novantatreesima performance ideata e realizzata da Vanessa Beecroft. Con cambi di luce, atmosfera evanescente, creata dalla macchina del fumo, e l’artista posizionata su un’alta scala, intenta a direzionare un fortissimo fascio di luce, che scorre sui volti o sulle linee del corpo delle performer.
Una corposa musica, Like a motherless child, composta da Gustave Rudman, come un mantra, scandisce il tempo. Un tempo che si dilata per tre -brevemente lunghe o lungamente brevi- ore. Donne erette su alti tacchi di sobri decolté, di colore nero, per il gruppo centrale, cipria per le restanti, con indosso tailleur destrutturati, sottolineando quella tensione tra nudità e abbigliamento, costrizione e libertà. Tre ore cadenzate e distinte dalla luce, dalla musica, a comporre tre atti, ad indicare diversi momenti della giornata. Dalle ultime luci del giorno fino al nero delle nove di sera, momento in cui magicamente tutto finisce, col buio più totale calato nell’immensa sala. Con un’ottima organizzazione, sin dall’ingresso, personale dello staff indica il percorso per raggiungere lo studio.
Non uno studio a caso, bensì lo Studio5 che, per cinefili e no, è un luogo sacro: lo studio amato da Federico Fellini che, proprio qui, girò diverse sue pellicole, tra le quali la celeberrima La città delle donne. Una performance, quella della Beecroft, fortemente voluta dalla nuova presidente di Cinecittà Chiara Sbarigia che, attraverso un articolato progetto culturale -pensato come una sorta di trilogia-, vuole ampliare la presenza femminile nella storia dell’Istituzione Cinematografica, raffigurandosi questa performance, come un atto di trasformazione in La cinecittà delle donne. Inizialmente era stato pensata come un unico grande coro ma, la difficoltà della sintonia di tutte le voci delle donne, tra l’altro senza aver compiuto alcuna precedente prova, ha accolto quella della musica appositamente composta per quest’evento.
Donne selezionate dalla stessa Beecroft, in tre distinti quartieri della Capitale: Corviale, Torre Angela e Idroscalo. Quartieri periferici che hanno offerto all’artista stessa di percepire e osservare la città da un’ottica diversa. Donne scelte con la ferma risoluzione di superare tutti quegli stereotipi sulla figura e bellezza femminile ritenuta perfetta: alta e snella e giovane. Così c’erano donne, o anche chi si sente tale, magre o con qualche chilo in più; donne alte e no; giovani e meno giovani; con capelli lunghi, corti, biondi, neri, bianchi, rossi; prosperose e no; con carnagione lattea o scura. Tanti diversi tipi di donne a ricoprire la vastissima varietà delle donne e della bellezza stessa. Ma, ugualmente, la performance è uno dei tre atti in cui è stato pensato l’intero progetto, che in realtà è un documentario di novanta minuti -anche di backstage- girato pure fuori dello studio, nell’arco di tre giorni, che entrerà a far parte dell’archivio di Cinecittà stessa.
E per l’artista è il primo documentario che attesta l’intero ciclo creativo delle sue performance, cristallizzando anche il pubblico, i collaboratori, lo staff, mostrando, in questo modo, le differenti relazioni tra artista e performer, tra performer e pubblico, tecnici e artista, e così via. Come per tutte le altre performance realizzate dall’artista dal 1993 (VB01 nella galleria Inga-Pin di Milano, nella quale mette in scena il suo Book of Food – il suo diario del cibo sul quale ha annotato per dieci anni ogni suo singolo pasto) ad oggi, anche questa indaga sul corpo e la bellezza femminili nelle sue sfaccettature, partendo da una specifica idea e impostazione. L’idea è stata suggerita sempre dal cinema, dal film La notte di Michelangelo Antonioni, nel quale Jeanne Moreau, vaga silenziosa, per la città, per feste, periferie, posando il suo taciturno sguardo su tutto quello che la circonda.
Quest’immagine ha suscitato nella Beecroft un parallelismo con altre donne persino della sua famiglia, quali la madre e la nonna che hanno vissuto in un’epoca in cui alle donne era stata tolta la parola, e raramente potevano esprimersi. L’impostazione segue quella che, in linea di massima, è stata pianificata sin dai primi tableaux vivants: Non parlate, non interagite con gli altri, non bisbigliate, non ridete, non muovetevi né teatralmente, né troppo velocemente o troppo lentamente, siate distaccate, classiche, inapprocciabili, forti; non siate sexy, rigide, casual, assumete lo stato d’animo che preferite (calmo, forte, neutro, indifferente, fiero, gentile, altero), comportatevi come se foste vestite, comportatevi come se nessuno fosse nella stanza, siate come un’immagine. Così, osservare quelle donne che, in maniera diversa, assumevano la propria personale postura e affrontavano la sfida di resistenza messa in campo dall’artista, ipnoticamente consegnava uno stato di identificazione catartica, utile per estraniarsi e mettere la giusta distanza dalle occupazioni e preoccupazioni quotidiane. Un’esperienza unica, difficile da staccarsi, impossibile da abbandonare che, per quelle tre magiche ore, ha trasmesso l’idea di far parte di una collettività, di una piccola comunità, coesa e fiera.
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