Apprestandosi a varcare le soglie che separano l’esterno dal Foyer del Teatrino di Palazzo Grassi – fino al 17 marzo, dal 15 al 22 aprile e ancora in occasione degli eventi aperti al pubblico presso il Teatrino – il suono riconoscibile delle acque che si infrangono sugli argini dei canali veneziani accoglie il visitatore. Non si tratta, però, di un generico richiamo alla città lagunare ma la traccia sonora dell’installazione video che, come riportato romanticamente sul pannello esplicativo, Edith Dekyndt ha filmato durante un mattino d’autunno del 2022. Song to the Siren mostra il gesto monotono e impotente di una giovane donna, distesa lungo la riva del tratto finale di Canale della Giudecca prossimo ai Giardini della Biennale, a Venezia, intenta nell’atto di detersione di una statua parzialmente immersa. Il vano gesto di lucidatura avviene in maniera ritmica, lenta; è sommesso – forse rassegnato – e l’unico strumento a disposizione per la sua riuscita è un panno bianco, oltre alle stesse acque torbide che hanno alimentato la crescita delle alghe e dei muschi.
Song to the Siren fa parte di una serie di atti performativi, sempre titolati a partire da una canzone, filmati presso diversi monumenti scultorei e congruenti a quello visibile al Teatrino: una figura femminile che in condizioni variabilmente stabili – a Venezia la statua è poggiata su un basamento idraulico sommerso, a Niewpoort, in Belgio, The Ninth Wave è messa in atto su una scala sospesa – tenta di ripulire un’immagine bronzea o in pietra. Il richiamo alle memorie evocate dai soggetti rappresentati è chiaro.
Nell’opera veneziana la scultura di Augusto Murer incarna le sembianze di una giovane partigiana, con le mani legate dietro alla schiena e gli occhi bendati, vittima di un’esecuzione fascista. Prendersene cura, accarezzarla e provare a ripulirla, ridireziona in anticipo sui tempi quei gesti di tentata distruzione che sempre più spesso vedono prese di mira opere d’arte e monumenti da parte degli attivismi. Ricordando che ognuna di queste azioni andrebbe contestualizzata singolarmente, è di interesse culturale e antropologico osservare il fenomeno che vede nelle espressioni di violenza rivolte a segni e simboli incarnati nell’arte – frequentemente legati a passati coloniali e ai regimi totalitari – non solo ragioni identificabili ontologicamente, ma anche l’umana necessità di marcare un territorio, il quale lentamente sta tornando a non condividere più alcuni valori fondamentali.
Edith Dekyndt fa parte di quegli artisti a cui viene attestato un interesse particolare, a partire dagli anni ‘90, per l’uso di oggetti ordinari, quotidiani, e come questi mutino a contatto con l’ambiente. Riconoscere quali elementi di questa predisposizione permangano nei suoi lavori recenti, in particolare quelli in cui potrebbe essere più difficile decifrarlo come Song to the Siren, implica ammettere che la memoria è un’oggetto d’uso comune.
Così facendo il parallelismo tra quest’opera e un’altra, presa ad esempio, esposta fino a qualche mese fa sempre negli spazi della Pinault Collection, in occasione di ICÔNES, diventa plausibile. Underground 17, una sezione di tessuto sepolto sottoterra per mesi, al fine di osservarne la degradazione una volta riesumato. Memoria e fabric sono alcuni degli oggetti scelti dall’artista belga per osservarne il grado di corruzione, quando sottoposti al passaggio del tempo e agli agenti esterni, separati da un’unica differenza: la compromissione della prima avrebbe conseguenze disastrose.
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