Franco Vaccari (Modena, 1936) è uno dei più noti artisti italiani che hanno usato pionieristicamente la fotografia come medium espressivo per resocontare l’idea di tempo, di “realtà”, di un innesco nella processualità della formazione dell’opera. Celeberrima la sua Esposizione in tempo reale alla Biennale di Venezia del 1972, dove chiedeva ai visitatori di “lasciare una traccia del proprio passaggio”, ma sue sono anche le Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer o i celebri Viaggi+Rito. Abbiamo intervistato Vaccari usando come base il tema del “reale”, attraversando oltre cinquant’anni di carriera, arrivando alla “Migrazione del reale”, titolo della mostra dell’artista che si è aperta a Bologna, alla galleria P420, in occasione della scorsa edizione di Arte Fiera.
Caro Franco, sono passati 51 anni dalla tua prima Esposizione in tempo reale (la nr. 1 dal titolo Maschere del 1969) introducendo per primo su tutti l’idea di opera come tempo impiegando il linguaggio della fotografia come innescatore di processi e attivatore di realtà. Quale furono i presupposti per l’invenzione di una pratica così nuova e mai vista prima?
«Entro il 1971 avevo già realizzato tre Esposizioni in tempo reale ad una delle quali aveva assistito il critico Renato Barilli e questa l’aveva indotto ad invitarmi alla Biennale di Venezia che si sarebbe svolta l’anno successivo, La fortuna (mia) ha voluto che questa avesse avuto come titolo “Opera o comportamento” e io fossi invitato fra i “comportamentisti”. Il titolo aveva eliminato di colpo tutti i riferimenti agli elementi tradizionali che avevano sempre caratterizzato le opere e aveva sgombrato il campo per l’uso di tecniche innovative come il ricorso al tempo e alla fotografia. Io mi ero eclissato come autore delegando ad uno strumento tecnologico (la cabina Photomatic) Il compito di costruire l’opera nell’arco di tempo dell’intera mostra e questo con il coinvolgimento di tutti i visitatori che venivano così sottratti al tradizionale ruolo di presenze passive».
Dopo una serie di Esposizioni in tempo reale, incentrate sugli effetti della fotografia sull’identità e sulla consapevolezza dell’esserci, nel 1975 inizi una serie di lavori sul sogno dove la dimensione psicologica e surrealista vengono eluse a favore di un approccio analitico, rivelatore del loro ruolo nella costruzione della realtà. Raccontaci la genesi di un lavoro allora così innovativo.
«L’uso del corpo come sorgente autonoma di messaggi e di immagini deve essere visto anche come l’esito estremo di quell’impiego in chiave impersonale dei mezzi tecnologici che è stato una delle costanti del mio lavoro. Il corpo si fa così strumento fra strumenti, Il corpo che sogna rappresenta un momento di eclissi del soggetto dove si dissolvono tutti i diaframmi che costituiscono la sua corazza protettiva. Già con la partecipazione alla Biennale del 1972 avevo rinunciato alle tradizionali prerogative dell’artista riservandomi il ruolo di attivatore di processi. Ma quando nelle esposizioni in tempo reale fa la sua comparsa il sogno il mio ruolo di “controllore a distanza” si dissolve a sua volta e il sogno diventa lo strumento principe per l’incontro con “l’inaspettato” e, contemporaneamente, con la sua “realtà”. Quello che più mi interessa è il carattere di “necessità” che possiedono le immagini dei sogni. Lo so che la categoria della necessità è difficile da utilizzare, ma tutti sappiamo cosa vuol dire essere assediati dall’arbitrario, dal pattume informazionale, dalla dimensione obesa raggiunta dagli pseudo eventi».
La tua nuova personale dal titolo “Migrazione del reale” alla P420 di Bologna è composta in due parti, due lavori che sembrano non avere un nesso diretto tra loro. La prima incentrata sulla registrazione dei sogni e la loro presentazione sotto forma di indice, la seconda siderale che porta l’attenzione su un avvenimento cosmico talmente reale da sembrare un sogno (o un incubo). Cosa li lega?
«Intanto ti faccio notare che questi sogni li ho raccolti in diverse decine di anni e che ho esposto solo in due occasioni una trentina di anni fa. Mi sembrava giusto condividere con gli altri questo corpus di una dimensione non indifferente, ma avevo però bisogno di un segno che mi facesse capire che il momento era giunto. Ho individuato questo segno nell’arrivo dell’asteroide che aveva molti dei caratteri che mi sembrano caratterizzare il sogno: la sua imprevedibilità, l’origine misteriosa, l’essere portatore di un messaggio di natura oracolare che apre porte su dimensioni extra-umane».
Nella prima sala della galleria hai presentato una serie di nuove opere che rielaborano i sogni raccolti negli anni, scritti su dei taccuini e corredati dai tuoi disegni. Sono ingrandimenti riportati su tela fotografica dei disegni degli album , sui quali sei intervenuto manualmente, dal carattere inaspettato anche nella loro resa formale. Come funzionano e cosa vogliono comunicare allo spettatore?
«Era un fatto molto privato, una specie di memoria totale della mia vita notturna; non avevo l’intenzione di farne oggetto di una mostra. Di questi album ne ho messo insieme una quindicina. È impossibile prevedere quale sarà il contenuto dei sogni. Questi mi sono venuti a trovare, si sono imposti alla mia attenzione. Non mi interessa la dimensione surreale o straniante, che sono tutti aspetti dello straordinario e dell’eccezionale e, neppure, quella psicanalitica. È la dimensione “reale” del sogno ad attirarmi. Nella mostra le opere sono illuminate da luci comandate da cellule fotoelettriche, che si accendono nel momento in cui il visitatore si avvicina e che si spengono quando questo si allontana. È come se il sogno comparisse e scomparisse quasi di colpo come avviene nella notte».
L’uso della videoanimazione con l’asteroide Oumuamua (messaggero che arriva per primo da lontano), presentata nella seconda sala, compare per la prima volta nella tua ricerca. Com’è stato approcciarsi ad un linguaggio digitale, nuovo per te, espressione di un immaginario virtuale e generazionale? «Si è trattato di un asteroide interstellare scoperto recentemente da un osservatorio delle isole Hawaii che, molto gentilmente, mi ha fornito un’immagine molto dettagliata dell’oggetto. Dall’immagine singola ho potuto ricavarne una in movimento. Ho trovato poi straordinaria la coincidenza del nome che gli avevano dato gli Hawaiani con quello che mi è sembrato essere il senso della mostra».
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