Fondazione Rocco Spani: formazione, arte, inclusione sociale – Intervista a Giulio De Mitri

di - 24 Agosto 2023

La Fondazione Rocco Spani nasce oltre trent’anni fa in seguito all’analisi dei bisogni della città vecchia di Taranto, per dare risposte a interrogativi quali: come far fronte ai fenomeni della microdelinquenza che investono la realtà della città, che provocano tensioni e reazioni rabbiose? E ancora, in quale maniera operare in un contesto sociale degradato, per offrire ai minori “a rischio” quelle possibilità, quei diritti di inclusione, di recupero e di nuove forme di socializzazione che implicano una risposta ai fenomeni della deresponsabilizzazione sociale presente nella dispersione e nell’abbandono scolastico?
Quasi tutti i minori di cui la Fondazione Rocco Spani si prende cura interagiscono significativamente con gli artisti. Non è un caso che, in seno alla Fondazione, abbia visto la luce il CRAC Puglia, il “Museo del Progetto”, che rappresenta un piano di ricerca sull’arte, focalizzato primariamente sugli strumenti metodologici dell’analisi, della documentazione, del disegno, dello studio preparatorio e della pianificazione di teorie e prassi della produzione artistica. Un impegno che guarda prima al progetto che al prodotto/opera e che agisce come incubatore di azioni e interventi diretti sul territorio.
Per saperne di più di queste realtà straordinarie abbiamo intervistato Giulio De Mitri, presidente della Fondazione Rocco Spani di Taranto.

CRAC Puglia, affaccio sul Mar Grande, Taranto (crediti fotografici Giorgio Ciardo)

Com’è nata la tua Fondazione?
«La Fondazione Rocco Spani Onlus è un ente giuridico riconosciuto, nata nella Città Vecchia di Taranto nel lontano 1987-88 attorno al suo primo laboratorio urbano.
La storia della Fondazione affonda le sue radici nella cultura legata alla fenomenologia artistica e culturale degli anni settanta, in cui si credeva e si sosteneva la validità dei rapporti tra arte e società, in cui “l’arte stimola la presa di coscienza di sé – scriveva Daniele Giancane, pedagogista – che è il primo gradino per giungere a rapportarsi con gli altri e a rivendicare la propria dignità, la necessità della partecipazione e della cooperazione per costruire una società più giusta ed autentica”.
Un forte legame identitario mi connette all’Isola Madre: mio padre era il medico-farmacista della Città Vecchia. La famiglia Carrino con il maestro Nicola, erano presenti nella nostra vita quotidiana.
La prima attività svolta dal laboratorio urbano nasce nella seconda metà degli anni ‘80, periodo in cui la città di Taranto stava vivendo un momento buio e di crisi senza precedenti. Insieme a un collettivo di artisti e operatori sociali, abbiamo dato vita nella città vecchia, a un’iniziativa all’insegna dell’arte e dell’animazione. I protagonisti, come accade ancora oggi, sono i bambini, i ragazzi e gli adulti dello stesso quartiere che soffrono maggiormente, non tanto la povertà materiale (anche se essa ha forte incidenza sulla loro crescita e sulla formazione della loro personalità), quanto la povertà immateriale, quella che poi si traduce in mancanza di modelli alternativi, precarietà di riferimenti culturali, violenza dei codici esistenti, dettati dalle norme di sopravvivenza della strada, nella pochezza dei rapporti interindividuali. Nasce, così, un laboratorio sociale, un atelier, uno spazio a misura di bambino per concorrere autorevolmente e come protagonista a nuove forme di auto-realizzazione e di riaggregazione sociale, uno spazio aperto al territorio, le cui finalità sono quelle di promuovere educazione, cultura e solidarietà. I laboratori didattici e di creatività artistica, hanno sperimentato un progetto di alfabetizzazione primaria, educazione alla lettura; libro, illustrazione e informatica: sostegno e recupero scolastico; educazione e comunicazione all’immagine: disegno, pittura, arti applicate, scultura, modellato, incisione calcografica; gioco, animazione ed attività motoria: ludoteca, psicomotricità, attività sportiva; animazione e spettacolo: teatro d’attore, mimo, marionette, burattini, pupazzi, ombre; educazione musicale e strumentale: suoni onomatopeici, canto, coro, pianoforte, chitarra, fiato, percussioni; piccolo artigianato: bricolage, decoupage; i laboratori di primo avviamento professionale  rivolti a minori appartenenti ad una fascia d’età tra i 14 e i 18 anni non compiuti. Con l’intento di contribuire, come primo, al recupero di vecchi mestieri legati all’artigianato (decoupage, incisione, sbalzo, mosaico, ceramica, modellismo, legatoria, ecc.), riscoprendo tradizioni e materiali tipici del territorio, sino a raggiungere alcune professionalità legate alla contemporaneità (computer grafica, fotografia digitale, video, editoria, ecc.). L’avviamento professionale poteva, in seguito, diventare per i ragazzi un’opportunità di lavoro. Ognuno di loro partecipava  all’esperienza laboratoriale e in questa fase di attività si costruivano nuove ipotesi, si imparava a conoscere le proprie attitudini. Progetto, processo e prodotto finale che ancora oggi sono i passaggi, l’escalation, che alcuni laboratori hanno sviluppato e sviluppano, al fine di veicolare nuovi meccanismi di lettura, di contatto con l’ambiente, stimolando capacità personali, creatività, intuizione, riappropriazione della realtà. Oggi le attività di laboratorio nell’arco dell’anno si possono raggruppare in sette segmenti tematici: autunno: “Scuola e Territorio”; inverno: “La festa dell’amore per un Natale diverso”; “Viaggio nel Carnevale tra fantasia, creatività e tradizione”; primavera: “Un battito d’ali, riscopriamo la natura”; Pasqua: “Tutti insieme per un mondo di pace e per una cultura dell’amore”; estate: “Sul veliero della Fantasia”».

CRAC Puglia, mostra OPERAnell’Opera2021 (crediti fotografici Giorgio Ciardo)

Perché la scelta di aiutare i bambini?
«Come ben sappiamo i bambini sono il futuro della nostra società. Crescere in un ambiente sano significa rispettare le regole dello stare insieme instaurando rapporti corretti con tutta la realtà che li circonda. Caratteristica saliente di questo progetto è stato il sano coinvolgimento di bambini e ragazzi a “rischio” nella riscoperta dei valori autentici che appartengono ad ogni società civile. Con un approccio attivo, cooperativo e trasversale, ogni minore è stato coinvolto nel fare arte, dando libero spazio alla creatività, allo stupore e alla meraviglia. Questa attività sperimentale alla fine degli anni ‘80, fu definita (dalle cronache cittadine) “Miracolo nella Città Vecchia”. Da qui parte l’evoluzione e la genesi di Fondazione, un’istituzione  permanente, non lucrativa, di utilità sociale e di volontariato, che rendesse stabile e strutturato l’operato fin qui svolto. Dedicata alla memoria dell’insegnante Rocco Spani, che aveva operato nel quartiere per oltre un quarto di secolo, contribuendo a migliorare le condizioni educative dei suoi alunni, rifacendosi all’etimo e-ducere, espressione latina che significa “condur fuori” dalle problematiche».

CRAC Puglia, mostra retrospettiva del maestro Ettore Sordini.Opere anni 60-70 (crediti fotografici Giorgio Ciardo)

In quale contesto ha cominciato a operare la Fondazione?
«Taranto, soprattutto nel periodo storico 1985-92, è stata una città ad alto rischio, ha vissuto una guerra di mala senza precedenti, che nel giro di pochi anni, ha provocato una vera e propria strage di morti. In questa guerra, naturalmente, i quartieri emarginati svolgevano un ruolo territoriale strategico, fondamentale per le bande che si confrontavano e tra questi c’era proprio la città vecchia, dove i fenomeni malavitosi sono stati ampiamente documentati. Ricordiamo la famigerata “strage della barberia” avvenuta nel pomeriggio del 1° ottobre 1991, tra i vicoli della città vecchia, nella quale quattro innocenti furono uccisi in una sala da barba. Questa vicenda rappresenta l’apice degli scontri, tra vecchie ruggini e dissidi per i business criminali, della lotta interna delle famiglie inquisite che trasformano la città dell’allora Italsider, nel teatro di una guerra di mala. Il vuoto creato da arresti e omicidi eccellenti fece saltare gli equilibri interni e il “tutti contro tutti” lasciò spazio al pentitismo. Tutto questo ha permesso che i ragazzi, soprattutto quelli più indifesi dei quartieri marginali, finissero con l’essere intrappolati nelle maglie della sopravvivenza spicciola, condotta in modo balordo per ingrossare le file della microcriminalità. Tutto questo è documentato oltre che dalla cronaca nera, anche dai dati statistici, che nella semplicità dei numeri e degli indicatori di valori, mettevano in luce la complessa e la pericolosa situazione della nostra città e del suo futuro.
Il progetto educativo della Fondazione Rocco Spani inizialmente era rivolto ai minori a rischio appartenenti al contesto sociale della città vecchia, con la consapevolezza, da parte degli operatori, di non poter sostituire, anche nel migliore dei casi, il ruolo delle Istituzioni e soprattutto gli interventi degli Enti locali, ai quali spetta l’onere di farsi carico delle necessità e delle urgenze che emergono vistosamente dalla suddetta area. Qui come in tutti i quartieri “poveri”, i ragazzi imparano ben presto, negativamente, come sopravvivere alle tante miserie che affliggono la realtà che li circonda, acquisendo e facendo propri i canoni della sottocultura, la violenza come culto della propria personalità, il disprezzo di qualsiasi autorità istituzionale come ideologia militante; il rifiuto di tutte le funzioni socio-culturali nelle strutture pubbliche come requisito per entrare nel “codice” della “cattiva” strada; l’impunibilità e il “lucro illecito” come parametri della propria individualità; l’omertà quale unica forma di relazione tra “pari”. E se tale è la matrice culturale, gli effetti sono devastanti: reati contro il patrimonio e la persona, spaccio di sostanze stupefacenti, aggressività verso tutto ciò che esula dalle piccole logiche dei propri interessi».

Come si articola oggi la Fondazione, quali attività svolge, chi ci opera, quanti bambini avete e in quali attività li seguite?
«La Fondazione ha dovuto superare tantissime difficoltà di ogni genere, ma si è sempre rigenerata con nuovi e diversificati interventi educativi e culturali. Da tempo ha assunto una sua dimensione operativa, altamente professionalizzata, che ha dato sistematicità ai fermenti iniziali, tanto da diventare, già dalla metà degli anni ‘90, riferimento importante delle istituzioni  preposte al mondo minorile, e, successivamente, dal Tribunale per i Minorenni istituito a Taranto che ha sede in Città Vecchia, il quale considerava l’impegno della Fondazione fondamentale per il recupero e l’integrazione sociale dei minori “a rischio di devianza”.
La Fondazione attraverso studi, ricerche, progettazione pedagogica, attività e interventi socio-educativi, formativi e culturali, ha progettato un lavoro pedagogico, strutturato e articolato in diverse segmentazioni: dalla prevenzione al recupero, dall’inclusione all’integrazione sociale. Ha individuato innovativi strumenti, metodologie e tecnologie avanzate, che consentono di contrastare il disagio e la marginalità giovanile, consapevole anche che questi fattori di rischio sono realtà complesse e in continuo divenire. “A tal fine, la Fondazione ha istituito la formazione permanente,  che si pone con attenzione e con ascolto della realtà esistente,– afferma Giovanna Tagliaferro, direttrice della Fondazione – dando così senso a nuove e significative modalità di relazione, ovvero, come voce autorevole e punto di riferimento del quartiere”.
La Fondazione con le proprie attività – nel corso di trentacinque anni di assiduo lavoro – ha realizzato, per i soggetti più fragili del territorio jonico, presidi permanenti nel centro storico di Taranto: i Laboratori didattici e Creativi, il Centro socio-educativo-culturale diurno “L’Isola della fantasia”, la Comunità educativa residenziale “Guglielmo De Feis”, la Biblioteca di comunità “Franco Sossi” e il CRAC Puglia (Centro di Ricerca Arte Contemporanea), realtà articolate e specialistiche. Le strutture educative della Fondazione, autorizzate dalla Regione Puglia e dal Comune di Taranto, possono ospitare quaranta minori di ambo i sessi in età compresa tra i tre e i diciotto anni, affidati dai Servizi Sociali con decreti emanati dai Tribunali per i Minorenni.
A tali presidi si affianca anche un’ulteriore attività di collaborazione con istituzioni private e pubbliche, a partire dalle Università presenti nella Regione, che si rivolgono alla nostra Organizzazione per attività di formazione, consulenza e realizzazione di stage formativi e tirocini per i propri studenti.
In modo particolare, le strutture educative della Fondazione si adoperano a: prevenire i processi di esclusione dall’ambiente di residenza; promuovere e sviluppare la vita di relazione e associativa;  partecipazione attiva in programmi ed interventi sociali attraverso attività mirate, raccordate con i programmi e le attività di altri servizi e strutture educative, sociali, culturali e ricreative esistenti nel territorio; oltre al minore affidato è coinvolto tutto l’ambito familiare.
Le attività sono organizzate in relazione a un progetto sia collettivo che individuale, che mira al raggiungimento degli obiettivi previsti. Il progetto prevede recupero e sostegno nei percorsi didattici; favorire dinamiche funzionali nelle relazioni sia all’interno della vita comunitaria, sia con gli adulti significativi; esperienze individuali e di gruppo; uso didattico dell’ambiente e dei laboratori; verifica dell’impianto progettuale; qualità organizzativa.
I laboratori della Fondazione svolgono attività ludico-creativa, rappresentano tante piccole “oasi” con un progetto che parte dall’alfabetizzazione primaria sino a raggiungere l’interrelazione tra saperi tradizionali e interdisciplinari, valorizzando la sfera emotiva e quella affettiva del minore, utilizzando linguaggi visivi ed espressivi. Volontari, collaboratori e dipendenti fortemente motivati operano e si identificano nei valori e negli scopi della Fondazione, condividendone il senso di appartenenza e dando vita ad un luogo privilegiato che risponda alle esigenze sociali e civili della nostra contemporaneità.
La Fondazione si è avvalsa, inoltre, dell’amicizia e della collaborazione di personaggi della cultura e della didattica dell’arte: da Amilcare Acerbi ad Albino Bernardini, da Claudio Costa a Miriam Cristaldi, da Lucrezia De Domizio Durini ad Andrea Canevaro, da Giorgio Di Genova a Donella Di Marzio, da Danilo Dolci a Toni Ferro, da Luigi Paolo Finizio a Mario Lodi, da Luigi Malerba a Daniel Martein, da Ilaria Musio a Carlo Piantoni, da Nicolò Pisanu a Cesare Pitto, da Pio Rasulo a Franco Sossi, da Barbara Tosi a Francesco Trequadrini. Così come del contributo di importanti istituzioni: dal Museo Pecci di Prato al MIC di Faenza, dalle Università di Bologna, Siena, Roma, Chieti, Bari, Lecce, Arcavade di Rende all’Istituto Progetto Uomo dell’Università Salesiana di Roma, alle Accademia di Belle Arti di Roma, Viterbo, Macerata, Milano, Catanzaro, Lecce e alle sedi distaccate in Puglia della L.U.M.S.A.».

Quanti ragazzi avete salvato a oggi? Che sbocchi hanno avuto?
«In trentacinque anni di attività, tantissimi bambini e ragazzi sono stati sottratti  all’abbandono scolastico e al rischio di devianza; un numero considerevole di minori ha intrapreso un compiuto percorso didattico conseguendo la maturità e/o diplomi quinquennali di carattere professionale, alcuni anche laureati in Beni culturali, in Scienze dell’Educazione e in Servizi Sociali, con sbocchi in attività privata o statale. Altri con corsi di primo avviamento al lavoro, dopo aver conseguito il diploma di qualifica, operano in campo artigianale e di servizio alla pubblica utilità».

Qual è il contesto familiare dei ragazzi che accogliete?
«Il contesto familiare è spesso multi-problematico, a causa dell’incapacità genitoriale, della disoccupazione, della disabilità per gravi malattie psico-fisiche, della reclusione per atti illeciti e delittuosi, dell’emigrazione clandestina, di nuclei allargati caratterizzati dalla promiscuità. Lo svantaggio socio-culturale di appartenenza proietta la famiglia in una realtà di marginalità sociale che compromette le sue funzioni educative. A eccezione di poche famiglie che vivono in un contesto di vera e propria deprivazione materiale».

Qual è il ragazzo o la ragazza la cui storia vi è rimasta più impressa e perché?
«Il nostro progetto educativo, come afferma Giovanna Tagliaferro, parte dalla presa in considerazione della storia di vita personale di ogni singolo minore. Storia che si collega agli affetti, alle figure primarie di riferimento, ai codici comunicativi della prima infanzia, alle dinamiche affettive che si sviluppano all’interno del contesto familiare. Una relazione educativa, per essere autentica, deve fondarsi sul presupposto di una reale comunicazione con l’altro, in un interscambio che provochi una rivisitazione e una rielaborazione personale. A oggi, Tagliaferro afferma: “non c’è una sola storia o un ragazzo/a in particolare che sia rimasto più impresso, perché molti sono stati gli interventi attuati. Al fine di rendere più efficace il nostro operato, ci sforziamo di mantenere il più possibile l’obiettività e un distacco emotivo, riportando un equilibrio tra empatia e assertività. Inoltre mi sono soffermata a riflettere e dai miei ricordi emergono alcuni casi emblematici dove la povertà materiale e l’incuria erano aspetti dilaganti rispetto ad oggi. Mi trovai ad accogliere, in pieno inverno, un bambino che portava scarpe molto più piccole della sua misura, senza calze, facendomi capire che pur di non doverle re-indossare continuamente non le toglieva mai. Decisi quindi di intervenire togliendole. Scoprii così che i suoi  piedini erano ricoperti di piaghe oltre ad apparire malformati. Ricordo ancora quando giunse in comunità una ragazza desiderosa di affetto ma che in realtà non riusciva ad esprimere questo bisogno e respingeva con aggressività qualunque approccio accogliente. Ha rappresentato da subito una sfida, poiché siamo riusciti a trasmetterle fiducia nelle relazioni e favorire in lei la capacità di chiedere in modo esplicito aiuto e sostegno, rendendo più efficaci gli interventi successivi, al fine di farla diventare autonoma nelle sue scelte affettive. Tante sono le storie che si possono raccontare dei nostri ragazzi, tutte molto diverse e per certi aspetti simili, ma ognuna unica.”».

Come entra l’arte nella Fondazione?
«Sicuramente ha influito in maniera decisiva la mia specifica vocazione artistica e la mia esperienza didattica nelle Accademie di Belle Arti italiane. La collaborazione di insigni personaggi del mondo artistico e pedagogico, da Bruno Munari a Mario Lodi a Joseph Beuys, che ho avuto l’onore di conoscere e di realizzare con loro dei comuni progetti artistici e culturali».

Come entra l’arte nel processo educativo dei ragazzi?
«Il linguaggio visivo è innato nel bambino, perché è un linguaggio dell’uomo da sempre, dalle pitture rupestri all’arte, in ogni civiltà e in tutti i tempi. Tutti i bambini del mondo amano disegnare e lo fanno naturalmente fin dai primissimi anni di vita, prima di andare a scuola. I loro primi scarabocchi, all’inizio senza motivazione rappresentativa, si evolvono con il tempo, si arricchiscono di particolari e accompagnano lo sviluppo mentale. Il bambino ha il diritto di sviluppare questo linguaggio in piena libertà creativa a casa e a scuola. Sfortunatamente ci sono genitori e insegnanti che non capiscono l’importanza della rappresentazione visiva e deridono gli scarabocchi perché non identificano il mondo reale, non permettendo così ai più piccoli di sviluppare tale linguaggio. La pratica delle arti visive nel quadro più ampio di attività educativa contribuisce a restituire al minore ciò che stiamo tutti perdendo o che abbiamo già perduto nella passività dei media. La produzione immaginativa attraverso l’arte, unitamente al dialogo, alla socialità, alla manualità, diventa esperienza che produce educazione e cultura. Inoltre i ragazzi con uno scarso bagaglio esperienziale, a volte, arrivano in età scolare senza essersi mai sperimentati attraverso l’utilizzo degli strumenti grafici, per cui, se adeguatamente stimolati, seppur insicuri ed inesperti,  arrivano a tracciare segni e simboli, reagendo con stupore di fronte a quello che sono capaci di “fare”».

Qual è l’effetto dell’arte sui ragazzi?
«L’esperienza dell’arte ci fa muovere nel nuovo, modifica i punti di vista sulle cose e sugli eventi, dà alla vita il senso dell’avventura e della meraviglia, contribuisce a valorizzare con successo le risorse intellettive, emotive e affettive. Sviluppa, inoltre, rapporto tra gli individui: si fanno cose insieme, si discute, ci si confronta, ci si influenza a vantaggio del progresso e dell’originalità, si impara a mettersi in discussione, aprendo il dialogo e il confronto con gli altri. Abbiamo potuto constatare, in tanti anni di lavoro, che l’esperienza dell’arte sviluppa ulteriormente la creatività.
Tutta l’arte visiva – antica o moderna o contemporanea – è pregna di metafore, allegorie, simboli rivelatori di visioni dalla forza comunicativa. Ogni opera è fatta da tante storie per immagini da scoprire e da capire. Storie reali e fantastiche. Storie senza storia che lasciano il fruitore assolutamente libero di cercare, esplorare, indagare, svelare quello che preferisce.
I ragazzi, attraverso l’attività pratica, hanno la possibilità di incanalare la loro energia impulsiva e autodistruttiva verso una meta diversa, più accettabile socialmente. Questo principio è quello che secondo le teorie psicologiche è noto come il principio della sublimazione, come afferma Freud: attraverso questa azione dinamica interiore, che regola il proprio vissuto emotivo, può accadere che vengano stimolate e rinforzate la creazione artistica, l’indagine intellettuale e, in generale, le attività più elevate dello spirito, l’investimento psichico servirà a far guadagnare maggiore autostima attraverso il riconoscimento, da parte degli altri, dello sforzo pratico/emotivo.
Il ruolo dell’arte diventa fondamentale nel processo dinamico di trasformazione e sublimazione delle spinte pulsionali, poiché, mentre da una parte si gestisce la forza degli elementi istintivi, dall’altra, attraverso la desensibilizzazione sistematica delle azioni negative, si rinforza il desiderio e la motivazione di perseguire un operato gratificante».

Com’è nata l’idea di aprire il CRAC in seno alla Fondazione?
«Il CRAC Puglia si pone come strumento in grado di confrontarsi con le best practices del territorio nazionale ed internazionale, al fine di produrre interventi di rigenerazione urbana e ambientale, azioni di recupero e promozione del contesto storico-culturale, operazioni espositive di rilievo storico e sperimentazione sui nuovi linguaggi della creatività artistica contemporanea. Dalla sua istituzione a tutt’oggi ha prodotto eventi, mostre personali e collettive, incontri d’esperienza, seminari, stage, ecc.».

Quando è stato istituito il CRAC?
«Nasce nel 2015 con l’istituzione di una collezione permanente di affermati artisti nazionali e internazionali, tra i quali Bruno Munari, Getulio Alviani, Nicola Carrino, Luigi Mainolfi, Pino Pascali, Mauro Staccioli, Giuseppe Spagnulo, Olivieri Rainaldi e Joseph Beuys, per poi evolversi in un’attività di ricerca, sperimentazione e documentazione visiva.
Luogo di ricerca e di acquisizione del sapere, al servizio della società, il museo, aderente alla rete museale della Regione Puglia, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale della contemporaneità, promuovendo la diversità e la sostenibilità».

GIULIO DE MITRI (Foto GIORGIO CIARDO)

Chi è Giulio De Mitri
La ricerca artistica di Giulio De Mitri (Taranto, 1952) è carica di stimoli, è un repertorio cosmogonico attraversato da visioni mitiche e sacrali. Ha cercato di mantenere costante la riflessione etica ed estetica, assecondata da una formazione di matrice filosofica, fondata sul pensiero platonico ed eracliteo, coniugando le istanze sociali e linguistiche del Novecento. La sua poetica è una continua ricerca di bellezza nutrita da interrogativi esistenziali e da una visionarietà che approda a una dimensione di minimalismo mediterraneo e di arte sociale e all’utilizzo di materiali naturali e tecnologici. Pietro Marino ha parlato di universo meridiano in riferimento alla sua ricerca.

Giulio De Mitri, Lucis, 2009

De Mitri ha attraversato, nel corso degli anni, diversi linguaggi: dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla performance, dall’installazione ambientale al video. Una ricerca ampia e complessa, oggetto dell’analisi di numerosi storici, critici e letterati. Tra i tanti, Raffaele Carrieri, Franco Sossi, Gillo Dorfles, Enrico Crispolti, Luigi Servolini, Luigi Paolo Finizio, Barbara Tosi, Antonio D’Avossa, Lorenzo Canova, Giacinto Spagnoletti, Marcello Venturoli, Sandra Orienti, Filiberto Menna, Bruno Corà, Giorgio Di Genova, Achille Bonito Oliva, Gérard George Lemaire, Luciano Caramel, Alberto Fiz, Arcangelo Izzo, Mario Lunetta, Alda Merini, Luciano Marziano, Pierre Restany, Francesco Vincitorio, Pietro Marino, Italo Tommasoni. Ha insegnato in diverse istituzioni accademiche e i suoi progetti sono stati supportati, nel corso degli anni, da importanti istituzioni artistiche, tra cui la Galleria Apollinaire di Guido Le Noci; lo Studio Arti Visive di Silvia Franchi; la Galleria Cesare Manzo; il Museo Beuys di Lucrezia De Domizio Durini; la Galleria Roberto Peccolo; lo Studio d’Arte Pino Casagrande; la Fondazione Città Italia; la Fondazione Museo Pino Pascali e la Pinacoteca Metropolitana di Bari. Giulio De Mitri ha curato inoltre la direzione artistica di numerosi progetti culturali per istituzioni pubbliche e private. Ha esposto in importanti rassegne, mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Gli sono state dedicate numerose pubblicazioni, monografiche e di carattere generale e le sue opere sono presenti in musei, collezioni private e pubbliche, sia in Italia che all’estero. L’arte, per Giulio De Mitri, è un flusso di emozioni, di pensieri, di riflessioni, di conoscenze, di informazioni che agisce sulla nostra vita intima più segreta, in modo silente, salvo poi stupirci ed emergere in tutta una serie di scelte, consapevolezze, responsabilità, ordini morali ed etici, che diventano l’espressione tangibile di quello che l’esperienza artistica ci ha dato. L’esperienza dell’arte modifica la struttura esistenziale, la nostra capacità di ragionare, sentire e comprendere le cose del mondo.

Giulio De Mitri, Cielo-mare (Identità), 2009
Giulio De Mitri, AttraversaMenti in luce (mostra e Opera pubblica), Premio Campigna 2016
Giulio De Mitri, TRANSITORIE ARCHITETTURE. Installazione ambientale site specifc. Loggiato del Vasari, Arezzo 2015
Giulio De Mitri, Linea blu, 2006. XV Quadriennale, Palazzo delle Esposizioni, Roma

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