L’inaugurazione della nuova sede succede a molti anni di attività della galleria Erica Ravenna, che ha improntato la sua ricerca sul lavoro di alcuni tra i maggiori esponenti dell’Arte Informale, dell’Arte Povera, Concettuale e Minimale italiana ed europea fin dal 1992, anno di fondazione. Questo, con un approccio tematico e storico-critico, mantenendo sempre vivo il confronto triadico tra arte, società e cultura. Da sempre, Erica Ravenna promuove un approccio interdisciplinare alle arti e collabora costantemente con curatori e critici d’arte. “L’Uomo e L’Arte” è il titolo dell’esposizione che inaugurerà il programma espositivo nella nuova sede romana.
Un programma espositivo di ricerca e approfondimento che ha lo scopo di rinvigorire la consapevolezza dei valori della nostra storia culturale, nel momento complesso e di criticità che stiamo vivendo. Con la curatela della stessa Erica Ravenna, “L’Uomo e l’Arte” mette in luce il rapporto tra artisti e storia dell’arte, sottolineandone l’importanza nello sviluppo dei linguaggi dell’arte visiva, tra Jannis Kounellis, Gino Marotta, Mario Schifano e Giulio Paolini, guardando al passato e traendone ispirazione.
In esposizione, una selezione di opere degli anni ’70, periodo in cui l’arte esprimeva la necessità di staccarsi da quanto avvenuto prima, che rivelano l’imprescindibilità della memoria storico-artistica. Accanto a queste, in un inedito accostamento, le loro fonti di ispirazione: Lucas Cranach il Vecchio, Giorgio De Chirico e Jean-Auguste-Dominique Ingres.
L’esposizione “L’Uomo e l’Arte” inaugurerà mercoledì, 21 aprile, negli spazi della nuova sede della galleria Erica Ravenna in via di Sant’Ambrogio 26, nel quartiere ebraico di Roma. L’evento inaugurale si estenderà anche nelle giornate di sabato 24 e domenica 25 aprile. Intanto, Erica Ravenna ci ha parlato dell’apertura della nuova sede della galleria e della mostra che aprirà il programma espositivo.
Con continuità rispetto all’esperienza passata, si apre un nuovo capitolo per la galleria Erica Ravenna. In particolare, cosa si vuole conservare e portare avanti e cosa invece state rimodulando soprattutto a partire da questa nuova sede? Cosa cambia nella nuova galleria Erica Ravenna?
«Ciò che si vuole conservare è un’impostazione storico-critica con la quale affrontare il tema dell’arte come elemento cruciale nel processo formativo di una società e di una identità culturale.
Cambia una maggiore apertura verso le più recenti sperimentazioni dell’arte contemporanea e quindi anche verso le nuove generazioni di artisti».
“L’Uomo e l’Arte” è il titolo della mostra che apre il programma espositivo di questa nuova sede. Un titolo che richiama alla mente diverse esperienze dell’arte italiana del secondo Novecento. Quali sono stati i suoi riferimenti?
«I riferimenti sono stati diversi: la riflessione sulla centralità dell’uomo in un sistema che lo costituisce in quanto tale anche attraverso il contributo della creazione artistica come parte integrante di un contesto sociale; un riferimento diretto alla galleria L’uomo e l’arte diretta tra gli anni ’60 e ’70 da Bruna Soletti a Milano: non un semplice spazio espositivo e commerciale, ma luogo di produzione culturale che ha prodotto tra l’altro una rivista omonima e casa editrice che ha pubblicato uno tra i primi libri d’artista di Mario Schifano; le opere di Mario Schifano presenti in mostra sono state originariamente esposte nel 1972 proprio a Milano nella galleria L’uomo e l’arte che ha dato anche il titolo alla mostra».
In quest’esposizione, le opere degli anni’70 di Kounellis, Marotta, Paolini e Schifano svelano il loro essere simulacro di immagini passate, se non nuove interpretazioni o reinvenzioni di queste. Questi artisti hanno considerato imprescindibile il legame con la storia dell’arte: dal più vicino De Chirico degli anni ’60 e ’40, passando per l’odalisca ottocentesca di Ingres, fino alla rappresentazione di Venere e Amore di Lucas Cranach il Vecchio del lontano 1506. Perché l’esigenza di portare all’attenzione questa relazione storico-artistica?
«Credo non sia ancora sufficientemente riconosciuta l’importanza degli artisti italiani del secondo dopoguerra soprattutto su scala internazionale e quanto questi abbiano realmente influenzato molte delle ricerche che si sono sviluppate negli anni successivi fino ai giorni nostri, nell’ambito dei linguaggi artistici. La Storia nel suo complesso determina per definizione il carattere di una società. Non si tratta di stabilire una supremazia culturale (alcune civiltà orientali affondano le loro radici in tempi ancor più antichi dei nostri) ma penso si possa parlare di una “gestalt” che permea attraverso i secoli il nostro fare artistico e che ha contribuito a formare un’identità culturale propriamente europea e occidentale di cui è importante non perdere la consapevolezza in un’epoca dominata dalle tecniche di comunicazioni di massa e dalle facili contaminazioni. Alcuni artisti emergenti di nuova generazione rifiutano il rapporto con la storia dell’arte nell’ingenua illusione di mantenersi liberi dai condizionamenti…».
Gino Marotta, Giulio Paolini e Mario Schifano hanno saputo assimilare e rielaborare ciò che era venuto prima di loro nella storia dell’arte. Grazie a ciò e alla loro sensibilità nei confronti del tempo in cui vivevano, hanno realizzato delle opere che ancora oggi si dimostrano attuali. Quindi, opere che nascevano precorritrici di temi e modalità future. Eppure, la narrazione dell’arte di quegli anni, soprattutto a livello internazionale, si è concentrata più su altre personalità. Marotta riprende la Venere da un’iconografia classica e antica (“Venere Artificiale”, 1971), invece, sempre tramite la serigrafia, Andy Warhol riprende un’immagine di bellezza dal grande schermo: quella di Marylin Monroe. Entrambi validissime espressioni di un’epoca ma secondo lei dove emergono maggiormente le differenze tra la lezione italiana e quella americana?
«Vorrei rispondere citando il testo di Laura Cherubini nel catalogo della mostra che abbiamo realizzato nel 2017 “Roma anni ’60: no pop”: “Achille Bonito Oliva a proposito della Pop Art parla di “uomo consumato” di nature morte e definisce come Grande Madre la Merce. Certo, quella della Pop Art è un’immagine destinata al consumo, diffusa dai mass media, incarnata da oggetti di consumo comune e veloce. Quella degli artisti italiani è un’immagine còlta nel momento in cui emerge alla coscienza. (…) Festa ha sempre sottolineato il carattere mentale della sua opera arrivando a dichiarare: Credo che la Pop-art col mio lavoro non c’entri proprio per nulla. Più vicino per certi aspetti mi sento agli artisti concettuali. (…) Mi dispiace per gli americani che hanno così poca storia alle spalle, ma per un artista romano e per di più vissuto a un tiro di schioppo dalle mura vaticane, popular è la Cappella Sistina, vero marchio del made in Italy”».
Ecco, penso che la differenza sia sintetizzata da questi due esempi. Un artista come Gino Marotta per esempio, ancora così poco conosciuto, ha anticipato in modo straordinario molti dei temi oggi così attuali come la contraddizione tra il mondo della natura e quello artificiale e ha utilizzato certi miti della cultura artistica del passato, in funzione popolare: così le Veneri di Cranach il Vecchio, il Cenacolo di Leonardo, le Madonne di Raffaello, il Giudizio Universale o il Mosé di Michelangelo, ecc. divengono i simulacri testimoni della consapevolezza di un’incolmabile lontananza dalla tradizione, un retroterra che ci discosta dal pragmatismo consumistico americano. Marotta declina l’uso dei materiali più nuovi di quegli anni – in particolare le varie materie plastiche prodotte industrialmente – accentuando con immediatezza l’effetto di artificio mentale in ogni immagine.
Il perché la narrazione dell’arte di quegli anni, soprattutto a livello internazionale, si sia concentrata più su altre personalità, è questione che appartiene a logiche più complesse che richiederebbe un approfondimento a parte».
“L’Uomo e l’Arte” è anche il nome di una rivista italiana che nel 1971 esordì con un’inchiesta sul tema “arte e società”. Tra le altre cose, si voleva denunciare la distanza tra arte contemporanea e società, conseguenza di una forma di elitarismo che andava a discapito dell’intenzione di molti artisti di rapportarsi col grande pubblico. Lei come immagina la galleria d’arte contemporanea, nel prossimo futuro, all’interno di una geografia sociale? Quali sono le sue aspettative o i suoi desideri al riguardo?
«In effetti, erano anni durante i quali era forte da parte degli artisti la spinta ad un coinvolgimento e alla partecipazione all’interno della società civile, nell’idea di un’arte che fosse “pubblica”. Nascevano iniziative come la mostra del Nuovo Paesaggio ideata nel 1968 da Marotta, Castellani e i due architetti di Domus Casati e Ponzio, per la Triennale di Milano che si proponeva, sviluppandosi sul territorio, di fare dell’Italia un museo a cielo aperto, o come la mostra “Amore mio” a Montepulciano: una tra le prime esperienze che vede gli artisti protagonisti assoluti, ideatori, curatori in interazione diretta col pubblico e con lo spazio espositivo. Non so se sia giusto interpretare tutto questo come un senso “politico” del fare arte, ma la sensazione è che oggi manchi questo tipo di coinvolgimento.
La drammaticità della congiuntura che stiamo vivendo, ha forse avuto il merito di mettere in luce le criticità della nostra epoca.
In questo senso penso che chi opera in un settore così vitale come quello della cultura, abbia una responsabilità. Quindi, una galleria d’arte contemporanea non dovrebbe connotarsi come semplice spazio espositivo e commerciale ma – come dicevo prima – dovrebbe essere un cuore pulsante di produzione culturale. Un luogo di aggregazione che favorisca anche scambi e confluenze tra linguaggi diversi come la poesia, la letteratura, la musica, il teatro e altro. In questi anni la mia attività si è sempre più concentrata in questa direzione e sarei felice di sapere di avere contribuito ad accrescere la consapevolezza di quanto l’arte sia un valore imprescindibile nel processo formativo di una società e di una cultura».
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